Il presidente argentino Mauricio Macri (foto LaPresse)

Ecco perché c'è molto Reagan in Macri

Maurizio Stefanini
Nel presidente argentino come in quello americano c’è l’idea che la cura liberista è necessaria per fermare il declino: è per questo che le sue prime riforme si sono concentrate sul fronte della deregulation. Similitudini e diversità tra due leader liberisti.

Mauricio Macri è il Ronald Reagan argentino? Certamente c’è una voluta provocazione, viste le evidenti differenze. Gli Stati Uniti sono la massima superpotenza mondiale. L’Argentina è un Paese che un secolo di continua ascesa ha portato a essere la sesta economia del mondo, ma un successivo secolo di decadenza ha riportato tra le economie emergenti. Gli Stati Uniti sono la più antica democrazia liberale del mondo. L’Argentina ha una costituzione che è modellata su quella degli Stati Uniti, ma per tutta la prima metà del XIX secolo fu sconvolta da dittatura e guerre civili, e nel XX ha subìto cinque golpe in 46 anni. Ronald Reagan era un popolare ex attore che si è inserito in uno dei due partiti tradizionali. Mauricio Macri è un imprenditore che ha infranto il bipartitismo tradizionale creando un suo partito.

 

Come punti di partenza, però, Stati Uniti e Argentina erano abbastanza simili, e in molti nell’800 prevedevano che l’Argentina avrebbe potuto diventare gli Stati Uniti dell’Emisfero Australe. Gli emigranti italiani per molti decenni ebbero in Stati Uniti e Argentina le due mete più ambite. Gli Stati Uniti però nacquero subito come democrazia liberale, e sono sempre rimasti uno dei Paesi più liberali del mondo. L’Argentina divenne una potenza economica sotto un regime liberale oligarchico che non riuscì ad aprirsi alle masse senza cedere il passo a un secolo di populismo che l’ha appunto portata al disastro.

 

In chiave minore, anche gli Stati Uniti nel 1980 si trovavano al culmine di una crisi di identità. La risposta alla crisi del ’29 infatti è stata un’economia curata con dosi crescenti di statalismo. Gli Stati Uniti sono però sempre restati un Paese a basso livello di presenza diretta dello Stato nell’economia, per cui a differenza che del Regno Unito di Margaret Thatcher la Reaganomics non è stata tanto liberalizzazione, quanto deregulation. Nel 1981 il licenziamento dei controllori di volo ribelli. Tra 1982 e 1984 la fine del monopolio telefonico, origine della rivoluzione della New economy. Tra 1981 e 1989 ci sono i tagli fiscali che portano il bilancio federale dal 20,2 al 19,2 per cento del Pil. È l’economia dal lato dell’offerta, che si basa sulla curva di Laffer piuttosto che su un moltiplicatore keynesiano che dopo lo choc petrolifero sembra non funzionare più. E c’è anche l’eliminazione dei controlli sui prezzi interni, anche se non sulle barriere doganali.

 

Anche in Macri come in Reagan c’è l’idea che la cura liberista è necessaria per fermare il declino. L’Argentina è una società dove la mano pubblica è più pesante che negli Stati Uniti, ma dove è stato presidente Carlos Saúl Menem: un peronista che ha privatizzato per  finanziare una parità tra peso e dollaro a lungo molto popolare, visto il potere d’acquisto enorme che offriva. Ma alla fine, esaurite le risorse, il sistema è saltato, favorendo il ritorno a un populismo vecchio stampo. I Kirchner hanno ristatalizzato alcune cose di forte impatto simbolico: dalle pensioni alla compagnia aerea e alla società petrolifera Ypf. Soprattutto, però, la loro è stata una politica di fortissimo vincolismo, oltre che di forte spesa e di assunzioni clientelari.

 

Effettivamente, dunque, Macri assomiglia a Reagan nel senso che più che sul fronte delle privatizzazioni sta operando su quello della deregulation. In particolare, ha posto fine al regime di razionamento del dollaro stabilito da Cristina Kirchner in chiave anti inflazione. Il peso si è svalutato ai livelli del 2013, ma in proporzione ha retto meglio del real brasiliano, minato dalla crisi economica e politica. Versante Laffer, Macri ha poi tolto le imposte all’export di prodotti agricoli: è rimasta solo quella sulla soia, ma ridotta dal 35 al 30 per cento. E il tutto annuncia uno spettacolare rilancio di un’agroindustria che durante l’epoca dei Kirchner si è spesso sentita soffocata. A 1400 prodotti è stata poi abbassata la tariffa doganale ai limiti che il Wto raccomandava e Cristina Kirchner rifiutava. Per “proteggere l’industria nazionale”: ma un risultato paradossale era che ad esempio per il costo troppo alto delle componenti era sparita dalle linee di produzione nazionale tutta una serie di auto “di alta gamma”, di cui ora Mercedes Benz, Ford, Peugeot e Renault hanno annunciato il ritorno. È dopo quattro anni è anche stato rimosso il divieto a importare libri. Perfino il governo di sinistra uruguaiano si sente alleviato, e tra il socialista Vázquez e Macri ne è nato un feeling tale che ora i due vogliono chiedere di organizzare un mondiale di calcio assieme. 

 

Altre misure di Macri: la riduzione da 512 a 370 dei prodotti calmierati nei supermercati; l’aumento dei tassi di interesse; il taglio delle sovvenzioni all’energia; il tentativo di riprendere i negoziati con i creditori che hanno rifiutato le ristrutturazioni del debito fatte nel 2005 e del 2010. Ma è cruciale soprattutto il licenziamento di almeno una parte dei 130.000 dipendenti pubblici assunti dai Kirchner in 12 anni: il 54 per cento in più! Una motivazione di questi licenziamenti è anche nel notorio assenteismo di molti dipendenti assunti per meriti kirchneristi: “ñoquis” vengono chiamati in Argentina, perché si presenterebbero in ufficio solo in quel giorno del mese in cui a mensa si servono gli gnocchi. E “marcia degli gnocchi” si chiama appunto la protesta che i sindacati stanno organizzando. Probabilmente sarà la “guerra degli gnocchi” l’omologo di quella che è stata per Reagan la battaglia sui controllori di volo.

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