Ai Weiwei (foto LaPresse)

E se Ai Weiwei fosse un bluff?

Giulia Pompili

Succede, a volte, che la dissidenza diventi professionismo. E’ una inquietante trasformazione di intenti e risultati – si chiama eterogenesi dei fini – ma succede. Stanarlo, il dissidente professionista, è difficile.

Succede, a volte, che la dissidenza diventi professionismo. E’ una inquietante trasformazione di intenti e risultati – si chiama eterogenesi dei fini – ma succede. Stanarlo, il dissidente professionista, è difficile: alcuni esuli nordcoreani, che mostrificarono il dramma per aumentare la propria visibilità e in qualche modo ricavarne più soldi, erano pur sempre esuli che avevano sofferto la fame, e la dittatura, e forse la verità poteva bastargli.

 

Allo stesso modo, è piuttosto scivoloso permettersi di criticare chi si è fatto la galera per motivi poco chiari, e adesso abbraccia cause condivisibili da chiunque non sia Satana, tipo la pace nel mondo e la fine delle carestie. O chi viene celebrato dall’opinione pubblica, e gode della simpatia massima da social network, perché ritira le sue mostre in Danimarca in segno di protesta con la discutibile decisione di Copenaghen di confiscare i beni ai richiedenti asilo.

 

E però poi alla fine qualcuno lo dice: Ai Weiwei è un artista mediocre. Nessuno ricorda una sua opera, se non forse per l’istallazione di semi di girasole in porcellana alla Tate Modern di Londra del 2010, o il dito medio davanti a luoghi simbolici come "studio della prospettiva".  Ma tutti ricordano lui. E l’immagine del bambino siriano Aylan Kurdi, morto sulla spiaggia turca sei mesi fa, che ha annichilito ogni spazio di riflessione sull’emergenza dei migranti, forse non aveva bisogno “dell’imitazione” (copyright Washington Post) di Ai Weiwei. Si chiama attention whore, una persona che riporta l’attenzione su qualcosa che l’opinione pubblica dimentica facilmente attraverso manifestazioni provocatorie. Ai Weiwei, artista e attivista cinese figlio del famoso poeta Ai Qing, da settimane risiede a Lesbo, in Grecia. Fotografa le navi di migranti che arrivano sulla costa e le pubblica su Instagram. E’ stato Rohit Chawla, un giornalista di India Today, a fotografarlo così, con la faccia sul bagnasciuga. Ora l’immagine è il pezzo forte dell’India Art Fair, per un’esibizione dedicata all’artista cinese il prossimo fine settimana. “Sappiamo che l'arte e l’attivismo sono strani compagni di letto, ma quello di Ai è un tipo di attivismo unicamente commerciale, e quindi illegittimo - Ai sta guadagnando sia capitale culturale e sia denaro dalla crisi dei rifugiati”, ha scritto ieri Karen Archey, critica d’arte di New York. “Invece di piazzare il suo lavoro nella pubblica piazza (perché Instagram non è abbastanza?), Ai lo trasforma di volta in volta in una galleria, un grande magazzino o una fiera d'arte. Mentre le opere di Ai sono fuorvianti atti di solidarietà, l'artista non riesce a capire che, in posa come Aylan Kurdi, suggerisce che l'immagine di un bambino di tre anni morto non sia sufficientemente scioccante per noi. Secondo lui abbiamo bisogno dell'immagine di un uomo di mezza età, ricco e potente, perché ci venga trasmessa la vera tragedia della difficile situazione dei rifugiati”.

 

Ai Weiwei è considerato in occidente uno dei più famosi dissidenti cinesi. Nel 2011 la rivista ArtReview l’ha nominato “l’artista più potente del mondo”, e il critico d’arte Mark Stevens commentò la decisione ponendo un quesito: ma se Ai Weiwei fosse più bravo come pubblicitario che come artista? E come mai affascina così tanto l’occidente? “La risposta è nell’occidente stesso”, scrive Stevens sullo Smithsonian magazine, “Adesso l’occidente è ossessionato dalla Cina, tanto che se non esistesse già, avrebbe di sicuro inventato un Ai Weiwei”. Secondo Stevens, l’artista funziona da specchio: mentre la Cina diventa la seconda potenza mondiale, l’occidente ha bisogno di qualcuno che gli ricordi qual è il prezzo per la popolazione: “Ai è perfetto per questa parte”. L’arte, in questo contesto, c’entra poco.

 

Il blog di Ai Weiwei nel 2009 venne chiuso dalle autorità di Pechino, l’anno precedente l’artista aveva lavorato alla progettazione dello stadio nazionale della capitale cinese, il famoso “nido d’uccello” dove si sono svolte le Olimpiadi del 2008, per poi dissociarsi dalla manifestazione e polemizzare pure con Steven Spielberg che aveva fatto la regia di parte della cerimonia d’apertura. Nell’aprile del 2011 Ai Weiwei divenne il volto internazionale della dissidenza cinese. Fu arrestato il 2 aprile, e il Global Time, dopo le pressioni dell’opinione pubblica e dei governi, scrisse un editoriale dal titolo “La legge non si piega di fronte agli anticonformisti”, accusando Ai di “avvicinarsi troppo alla linea rossa della legalità cinese” e gli stati occidentali di “ignorare la complessità della sfera giudiziaria in Cina” e di coprire crimini reali sotto il manto dei “diritti umani”. Poco tempo dopo Pechino aveva dato la versione ufficiale dell’arresto: “Reati contro il fisco”. Ottantuno giorni dopo l’artista cinese fu rilasciato su cauzione. Da allora è iniziata la sua carriera di “portavoce della resistenza”. A ottobre del 2015, per esempio, Ai Weiwei aveva inondato i social network di proteste perché la Lego, l’azienda danese delle costruzioni per bambini, non gli aveva venduto un grosso quantitativo di mattoncini da usare per le sue opere. Apriti cielo, censura. La Lego è stata costretta a togliere il tetto sugli acquisti, e Ai Weiwei ha celebrato: “E’ una vittoria per la libertà di parola”. Cos’è questo, se non un professionista?

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.