Bronzino,“La discesa di Cristo al limbo” (particolare), 1552 (Firenze, museo dell'Opera di Santa Croce, dapprima in una cappella della stessa chiesa)

Più nudi di così

Marco Bona Castellotti
Glutei, seni, “stomachi e fianchi” e pubi con o senza foulard: era un trionfo di corpi l’arte a Firenze nel ’500. Subì qualche rimbrotto, ma nessuno si sognò di chiuderla in scatola

L’esibizione del nudo nella scultura e nella pittura fiorentina verso la metà del Cinquecento non conosce eguali nell’arte italiana per profusione di glutei, zinne, membri e organi, “stomachi e fianchi”, e specialmente pubi nella duplice versione con o senza foulard, sempre svolazzanti, mai completamente ricoprenti. Il fenomeno dell’ostensione tocca il vertice nei decenni centrali del XVI secolo, con Cosimo de’ Medici duca, prima di diventare granduca, e non si limita alle opere di destinazione civica o privata, bensì invade gli edifici di culto. Non c’è dubbio che esso dipenda dalla cultura del ritorno all’antichità classica, dell’esaltazione del principio dell’imitazione del naturale propria del Rinascimento, e dalla pratica idealizzante e accademica dello studio dell’anatomia e della figura umana, ma cresce alla luce dei modelli pittorici e plastici di Michelangelo, in primis gli affreschi della volta della Sistina e il “Giudizio universale”, indi le statue dei “Prigioni” e del “David”. Mentre a Roma la censura controriformista intervenne presto a far calzare i braghettoni ai nudi fluttuanti nel cosmo michelangiolesco, Firenze, defilata rispetto ai centri di più diretta influenza pontificia, durante il governo di Cosimo si concesse licenze che neppure nella libera Repubblica di Venezia sarebbero state tollerate. Il consuntivo è una folla di corpi nudi nei dipinti che addobbano palazzi e chiese, per non dire delle sculture che, da par loro, si prestano alla nuda verità del tutto tondo.

 

Pur vantando fra gli ascendenti due Papi, Leone X e Clemente VII, che fu vittima del Sacco del 1527, Cosimo fu sospettato di simpatie eterodosse, di deviazioni filoprotestanti al limite dell’eresia. Ciò non di meno era riuscito a imporre il suo autoritarismo nella curia fiorentina, allontanando il vescovo Antonio Altoviti, figlio del celebre Bindo, banchiere e fine mecenate, cui Raffaello fece il bellissimo ritratto da giovane. Lo richiamò dopo il 1560, quando il Medici cominciava ad adattarsi ai principi trionfanti della controriforma. Ma prima, per proterva ingerenza nelle questioni ecclesiastiche, il duca aveva promosso o addirittura suggerito opere d’arte fondate su iconografie capziose e audaci, che talvolta suscitarono la riprovazione degli esegeti. Tuttavia, durante il suo lungo regno, non vi furono né verecondi rivestimenti, né smobilizzi, né scatoloni o involucri. Nel folto gruppo di artisti che ruotavano intorno a Cosimo, altercando fra di loro per conquistarne la benevolenza e in generale il primato, in una stagione di grandioso rilancio monumentale della città, sfilavano il Cellini, Pierino da Vinci, il Bronzino, sul versante omosessuale, il Vasari, Baccio Bandinelli e il Salviati, su quello etero.

 

A questo secondo gruppo si aggregò un pittore minore e prolifico, cresciuto all’ombra di Vasari e del Rosso Fiorentino, di nome Carlo Portelli, quasi sconosciuto ai più. Oggi gli viene dedicata una mostra molto interessante alla Galleria dell’Accademia (a cura di Lia Brunori e Alessandro Cecchi; sino al 30 aprile, catalogo Giunti). Portelli, controriformista di stretta osservanza, era particolarmente versato nei soggetti sacri, ma almeno una volta dipinse – per tirare il fiato – una curiosa “Allegoria della fortuna”, dove compare una bella donna seduta a cavalcioni di una ruota, leggermente intimidita dalla propria (non integrale) nudità, sì da incorniciarsi con una mantello, gonfio che pare una vela. Poi, nel 1566, quasi al termine della carriera, il Portelli si concesse un colpo di mano, e rappresentò una “Allegoria dell’Immacolata concezione”, da collocarsi nella chiesa di Ognissanti, officiata dai frati minori osservanti; una sede più devota di così non si sarebbe potuta immaginare. La tavolona gli era stata ordinata dalla religiosissima famiglia spagnola dei Tapia, sodale di Eleonora di Toledo, la moglie di Cosimo ritratta insieme al figlioletto nel bellissimo quadro di Bronzino agli Uffizi. Contrariamente al consorte, Eleonora era un po’ bizzoca. La pala d’altare con l’Immacolata, di una dimensione tale per cui le figure risultano maggiori del naturale, contravviene al decoro. In posizione centrale, infatti, s’innalza una flessuosa Eva – vagamente somigliante a Josephine Baker ma bianca – che, volgendo le terga all’osservatore, ignuda tranne che per una gonnella trasparente e succinta, ammicca e dà un colpo d’anca che evoca la mossa. Visto che gli altri personaggi che affollano la scena corrispondono fedelmente e senza deviazioni concettuali, al tema dell’Immacolata, non si insinua il benché minimo sospetto di volontarie trasgressioni. Molto semplicemente il Portelli, nel raffigurare la voluttuosa Eva, non era riuscito a controllare un fremito di libertà. Lo storico fiorentino Vincenzo Borghini, controriformista di ferro e raffinato scrittore, sbottò contro il pittore che aveva “messo innanzi una gran femminaccia ignuda che mostra tutte le parti di dietro”. L’invettiva non ebbe seguito immediato, ma circa un secolo più tardi, un premuroso sagrestano di Ognissanti fece scomparire la pala e la tradusse nel convento annesso alla chiesa, dopo aver nascosto il corpo di Eva sotto una pelliccetta ruvida e spelacchiata come una tela di sacco. L’indumento cadde nel 2003 durante il restauro.

 

Se Benvenuto Cellini eccelleva nella rappresentazione marmorea di giovinetti efebici, quali “Narciso”, “Ganimede”, e Pierino da Vinci scolpiva “Dioniso e Ampelo” riutilizzando un marmo greco, il roboante Bandinelli realizzò i due nudi più flagranti dell’arte nell’età di Cosimo: “Adamo ed Eva”, che originariamente erano stati pensati per arredare il coro di Santa Maria del Fiore, la cattedrale di Firenze, dietro l’altare maggiore sul quale troneggiava la statua di Dio padre. Cellini e Bandinelli si guardavano in cagnesco e non perdevano occasione di insultarsi; sul loro antagonismo il duca soffiava per fomentare la competizione. Cellini rimproverava al Medici di aver gettato via “migliaia di ducati in certe brutte operacce di scultura, fatte di mano di quel bestial Buaccio Bandinello”. Questi gli rispondeva per le rime dandogli del “soddomitaccio” in presenza del duca, il quale, scandalizzato da simile epiteto, aveva “serrato le ciglia” in segno di disapprovazione. Bandinelli vantava ormai al suo attivo una serie di opere pubbliche, come l’immenso “Ercole e Caco” in piazza della Signoria, gruppo marmoreo di soggetto mitologico che gli era stato commissionato dal Papa Clemente VII, e Cellini aveva ricoperto quell’opera, criticata dalla stessa cittadinanza, di vituperi, affermando che i muscoli di Ercole erano un “saccaccio di poponi”. Bandinelli era malvisto da chiunque per il carattere fieramente superbo, iracondo e supponente; Cosimo lo ammirava ugualmente perché bravissimo. L’impresa del coro di Santa Maria del Fiore impegnò lo scultore per vari anni sì che il duca, stanco delle lungaggini dell’artista, propose al Cellini di sostituirlo, ma questi rifiutò per non “arricchire” i lavori dell’odiato collega, visto che quel coro era “scorretto” e alcuni dei rilievi erano stati progettati in posizione troppo ribassata e rischiavano di diventare un “pisciatoio da cani”.

 

[**Video_box_2**]Nonostante l’elaborazione faticosa e accidentata, i “Progenitori”, alti quasi due metri e mezzo, nel loro modellato levigato e lucente sono di eccezionale bellezza. Dal 1551 al 1720 circa, quando il coro fu completamente smantellato, rimasero in Santa Maria del Fiore. Erano visibili solo girandogli attorno, ma a onta della posizione defilata la loro nudità provocò aspre stroncature, come si legge nel diario di un anonimo fiorentino che senza mezze parole scrisse: “Si scoperse le lorde e porche figure di marmo in Santa Maria del Fiore, di mano del Bandinelli, che furono un Adamo et una Eva, della qual cosa ne fu da tutta la città biasimata”. In realtà, Bandinelli era uomo pio, capace di passare dal nudo classico e paganeggiante dei “Progenitori” a quello drammatico e dolente della “Pietà”. Nelle due statue di Adamo ed Eva, che dopo lo smobilizzo settecentesco del coro furono trasferite in Palazzo Vecchio indi al Bargello, si coglie un esplicito riferimento alla “romanità precristiana”, che effettivamente non poteva collimare con la concezione “biblica” dei due abitanti dell’Eden. Viceversa, la loro nudità è aliena da intenzioni lascive, è invece l’ingrediente di una celebrazione della bellezza ideale e classica. Al massimo lo scalpore era giustificato dalla collocazione nel duomo.

 

Ma quand’anche un Papa, in visita ufficiale della città di Firenze, fosse condotto alla Santissima Annunziata dei servi di Maria, o nel nuovo museo dell’Opera del duomo, o al Bargello, o all’Accademia, nessun papavero di curia né di stato sarebbe preso dallo scrupolo idiota d’inscatolare le statue “grecizzanti” del Bandinelli, o la “Pietà” di Michelangelo, o il “David”, ritratto nella sua giovanile età preprofetica, né di oscurare le grandi tavole di Bronzino e di Pontormo, rivestendole, per pudore, di drappi neri. Ci mancherebbe che avesse il sopravvento la cultura degli scatoloni, i quali riescono sì a nascondere glutei, zinne e pubi appartenenti a statue, ma falliscono se si tratta di quadri. Per esempio quelli di soggetto sacro che Bronzino realizzò dal 1550 circa alla fine dei suoi giorni. Qui l’ostentazione dei corpi femminili e preferibilmente maschili perviene al parossismo del groviglio e se si volesse applicargli un filtro purificatore, andrebbero totalmente paludati o, per ottenere un più sicuro risultato, bruciati. La “Discesa di Cristo al limbo”, conservata nel museo dell’opera di Santa Croce, sovrabbonda di zinne tornite, di torsi possenti, di terga gagliarde di ragazzi d’Arno, di putti che s’abbracciano lascivetti. La “Risurrezione” è un frullare di angeli sdilinquiti, graziosi, come quello con le gote vermiglie e il “ventre candido”, alla sinistra di Cristo, che con gesto “dilicato e morbido” si copre con un foulard-panneggio, mentre il partner, a destra, è così impegnato a reggere la pietra del sepolcro che non s’accorge che il foulard-perizoma sta per scivolargli giù. Il “Martirio di san Lorenzo” nella chiesa eponima, opera di un Bronzino decrepito, è un’accozzaglia di citazioni da Michelangelo: muscoli avvizziti, corpi di gomma, glutei ovunque. Una palestra di culturismo per la terza età. Nessuno subì censure. Si levò ancora la voce solitaria del Borghini, che, considerando quelle figure “sconvenevoli”, si preoccupò di far notare come tutte quelle pitture non favorissero la contemplazione e la preghiera.

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