Donald Trump e Ted Cruz (foto LaPresse)

La “congiura” della destra antipopulista per abbattere Trump

“E’ tempo di una congiura repubblicana!”, grida sulle colonne del New York Times David Brooks, opinionista conservatore di persuasione centrista o moderata inorridito dal crasso populismo di Donald Trump e Ted Cruz e, se possibile, ancora più inorridito dal silenzio della classedirigente del partito repubblicano.

New York. “E’ tempo di una congiura repubblicana!”, grida sulle colonne del New York Times David Brooks, opinionista conservatore di persuasione centrista o moderata inorridito dal crasso populismo di Donald Trump e Ted Cruz e, se possibile, ancora più inorridito dal silenzio della classe dirigente del Partito repubblicano: “Sono come pivelli impauriti durante l’intervallo della partita di football della scuola”. Metà è rassegnata alla sconfitta della propria squadra, l’altra metà è tentata di abbandonare la nave, con una “alacrità che farebbe applaudire un topo”. Trump è un “genio solitario del branding le cui politiche non hanno alcun punto di contatto con il pianeta Terra”, Cruz è l’idolo distruttore di una corrente minoritaria, dice Brooks, quindi “è tempo che i repubblicani facciano qualcosa”, ché se “MoveOn può mobilitare, se il Tea Party può organizzare, se Justin Bieber può costruire un gigantesco movimento attraverso i social media, perché voi non siete capaci di alcuna azione collettiva?”. La “maggioranza silenziosa” non può tacere per sempre, e l’ultimo che ha pungolato il popolo della destra ragionevole con quell’espressione poi ha vinto le elezioni 49 stati a 1. Sono mesi che i maggiorenti del Partito repubblicano, sotto la guida del leader del Senato Mitch McConnell, si incontrano a porte chiuse per consolidare una strategia anti Trump e prepararsi a eventuali scenari apocalittici dopo le primarie che iniziano il 1° febbraio in Iowa, ma l’iniziativa di palazzo non ha prodotto fin qui risultati ravvisabili nei sondaggi. L’indicazione che arriva dall’interno del partito è quella di rappresentare Trump come un elemento spurio del conservatorismo, un eterodosso eroe dei “New York values”, più a suo agio con i dettami liberal che con la tradizione conservatrice. Linea d’attacco inefficace. Come ha osservato David Frum, altro conservatore antitrumpiano, gli elettori di Trump “non sono necessariamente superconservatori. Spesso non pensano in termini ideologici. Ma sentono fortemente che la vita in questo paese era meglio per quelli come loro, e vogliono indietro quel mondo”. Il sodalizio improbabile con Sarah Palin, regina dei valori conservatori che Trump ignora – e lanciata sulla scena da un politico che apertamente disprezza – dimostra che la questione non c’entra con le idee e i programmi, Trump fa leva su un messaggio pre-ideologico che i ranghi politici non sono equipaggiati per combattere. Anche la versione del politologo Matthew MacWilliams, secondo cui il tratto centrale del messaggio trumpiano è l’autoritarismo non sembra offrire argomenti sufficienti a chi tenta di arginarlo con mezzi politici.

 

Così tocca alla fanteria degli opinion maker provare a tenere la linea, se non a mobilitare. Michael Gerson, ex speechwriter di George W. Bush, teme una “massiccia revisione ideologica e morale del partito”, John McCain tenta di non mostrarsi intimorito dal candidato che liquida come un “cretino bugiardo”. Tempo fa l’intellettuale neocon Bill Kristol ha lanciato una campagna per fondare un terzo partito “anti Trump e anti Clinton” e su Twitter ha pure aperto un divertente contest per trovare l’animale da mettere nel simbolo: “Il leone? Il pastore australiano? L’ewok?”. Kristol ha poi spiegato che la sua idea è “semiseria”, roba per sollevare le coscienze più che per organizzare una controffensiva, anche perché la fortuna dei terzi partiti nella storia americana è stata sempre estremamente limitata. Ogni quattro anni, di fronte alle fortune passeggere di una testa calda populista, c’è sempre chi invoca la nascita di un terzo partito guidato dal tecnocrate di buonsenso par excellence, Michael Bloomberg, e la cosa sgonfia prima ancora che l’interessato smentisca. Chi ha messo in fila le ragioni per cui tutti i conservatori in buona fede dovrebbero sentire l’emergere dell’imperativo morale di non votare (e di combattere attivamente) Trump è Peter Wehner, ex consigliere di Reagan e dei due Bush: “La virulenta combinazione di ignoranza, instabilità emotiva, demagogia, solipsismo e spirito vendicativo darà origine a qualcosa di peggio di una presidenza fallimentare. Potrebbe portare a una catastrofe nazionale”. La sua nomination “porrebbe una profonda minaccia al Partito repubblicano e al conservatorismo, in un modo che Hillary non potrebbe mai. Se Hillary può infliggere una sconfitta al Partito repubblicano, non può ridefinirlo. Cosa che invece farà Trump se sarà il candidato repubblicano”. In una ipotetica sfida fra Trump e Hillary, senza una terza alternativa votabile, Wehner dice che non andrà alle urne. Ma non c’è dubbio che qualcuno, a destra, segretamente darebbe la preferenza a Hillary, per lasciare la Casa Bianca in mano a qualcuno che è a contatto con il pianeta terra, per usare la formula di Brooks. Ma il fronte della destra antipopulista è talmente disorientato che sta emergendo una nuova scuola di pensiero, secondo cui il peggiore dei candidati possibili è Cruz, non Trump. L’ex candidato presidenziale Bob Dole lo ha detto al New York Times: Cruz è un “estremista” che vuole cambiare il codice genetico del partito, Trump è in fondo un palazzinaro miliardario che deve la sua fortuna alla capacità di fare accordi, è un istrione senza princìpi, gestirà la cosa pubblica come un grattacielo di Manhattan. C’è di peggio. Il senatore del Texas, invece, è un “nasty guy” intransigente che tutti odiano. E’ una prospettiva più condivisa di quanto si creda. Un consigliere di Marco Rubio dice al Foglio che Cruz è un avversario “ideologico”, più subdolo e infido del giullare populista con il ciuffo. La congiura antipopulista è partita, ma non sa decidere chi è il nemico giurato da abbattere.