Elezioni in Spagna
Così Rajoy è diventato il premier inevitabile, nonostante i sondaggi
Roma. Quando la tv spagnola Telecinco ha chiesto, in un’intervista quadrupla ai candidati alle elezioni del 20 dicembre, quale fosse la loro serie preferita, i tre leader dell’opposizione – Pedro Sánchez del Partito socialista, Albert Rivera di Ciudadanos, Pablo Iglesias di Podemos – si sono sperticati a elencare i capolavori americani: “Mad men”, “The Wire”, “The West Wing”. Solo il premier del Partito popolare (Pp) Mariano Rajoy si è animato e ha detto: “Il programma di Luján Argüelles”, la Barbara D’Urso spagnola, che conduce uno show per famiglie che in Italia si chiama “Mammoni”. “Non è una serie, ma è simpatico”. Interviste come questa spiegano perfettamente la strana leadership di Rajoy, salvatore dell’economia spagnola, trascinatore svogliato di folle, politico e tecnocrate, gentiluomo di campagna che in una gaffe famosa disse che lui aveva imparato a badare “alle cose degli esseri umani normali”.
Le cronache spagnole si preparano tutte al grande suk post elettorale, con gli analisti sicuri, in attesa di essere smentiti, che nessun partito andrà vicino alla maggioranza di 176 seggi. Mezze frasi si trasformano in programmi, venerdì il centrista Rivera che si è detto pronto a dare sostegno esterno a chiunque riuscirà a formare un governo di minoranza e il premier ha escluso grandi coalizioni alla tedesca con i socialisti. Il Pp è in testa con il 27 per cento dei voti e circa 120 seggi, e questa è stata per mesi l’unica costante di una campagna elettorale in cui i sondaggi sono sembrati montagne russe per la continua salita e discesa dei partiti più o meno emergenti. Agli occhi degli spagnoli, ormai Mariano Rajoy si è trasformato nel premier inevitabile.
“Per assenza di alternative credibili”, dice al Foglio Julio Pomés, presidente del think tank liberista Civismo ed editorialista del giornale ABC. Ma anche perché lo stile di governo di Rajoy, tutto basato sui risultati, alla fine sta facendo breccia.
[**Video_box_2**]“In questi anni di governo, il motto del premier è stato: ‘Lo que se hace bien, hay que hacerlo, lo que se hace mal, mejor no hacerlo’”, dice al Foglio Manuel Álvarez Tardío, docente di Pensiero politico all’Università Rey Juan Carlos di Madrid. E’ una professione di sommo pragmatismo, scevro di fronzoli e ideologie. Le decisioni giuste “si prendono da sole”, ha sempre detto Rajoy, convinto che la “sensadez”, la ragionevolezza dei suoi programmi (parola chiave) alla fine gli avrebbe dato ragione. L’ha fatto, le politiche di austerity hanno riportato la crescita del pil al 3,3 per cento e l’occupazione ai livelli pre crisi, anche se non sempre il premier è stato in grado di restituire il senso della sfida che il suo governo stava vincendo. E’ alla “sensatez” dei risultati che Rajoy ha fatto appello per tutta la campagna elettorale, al buon senso di chi guarda i programmi per famiglie di Luján Argüelles e non ha mai visto “The West Wing”. I media riportano che i sondaggi interni al Pp danno Rajoy in crescita, vicino al 30 per cento, forse di più, quanto basta per formare un governo monocolore, magari di minoranza. L’alternativa è la confusione, che potrebbe rendere il pragmatismo del premier ancora più inevitabile.
tra debito e crescita