Mariano Rajoy (foto LaPresse)

Rajoy fa l'ultimo difensore del bipartitismo (con gli occhiali rotti)

Eugenio Cau
In Spagna, il premier crede ai sondaggi e fa campagna contro i populismi. Dati e calcoli. Voci degli analisti

Roma. Il premier spagnolo Mariano Rajoy ha fissato l’asticella del successo del Partito popolare alle elezioni del 20 dicembre: il 30 per cento dei consensi. Sopra questa soglia, Rajoy si dice sicuro che il governo sarà suo, che sia un esecutivo di minoranza o di coalizione. Sotto al 30, le cose si faranno complesse, e sarà più difficile formare “un qualche tipo di governo stabile”, ha detto di recente ai giornalisti. Il premier non ha ancora perso le speranze nell’“effetto inglese”, nella possibilità che, come successo alle elezioni di maggio in Regno Unito, i sondaggi che prevedevano un grande suk post elettorale in cui i piccoli partiti potevano ricattare i grandi senza maggioranza si rivelino tutti sbagliati, che il leader conservatore ottenga una vittoria inaspettata e ampia, che gli sforzi del buon governo e dell’oculata gestione economica alla fine ripaghino oltre le previsioni. Un miracolo inglese per Rajoy è possibile, il 40 per cento degli elettori è ancora indeciso e gli esperti del Partito popolare continuano a sussurrare che le quotazioni del premier sono in aumento, ma per ora i sondaggi raccontano una storia di instabilità politica. Secondo gli ultimi sondaggi fatti lunedì prima del silenzio elettorale, il Partito popolare (Pp) dovrebbe ottenere circa il 27 per cento dei voti, e un numero di seggi alla Camera che varia dai 103 ai 128. Il Partito socialista (Psoe) il 21 per cento, con 76-94 seggi. Ciudadanos, la formazione centrista di Albert Rivera, il 19 per cento, con 52-72 seggi. Podemos, gli antisistema di sinistra di Pablo Iglesias, il 16 per cento, con 49-64 seggi. Gli esperti consigliano di diffidare di queste cifre: finora, alla prova delle urne, il bipartitismo spagnolo ha sempre retto bene, e i due partiti tradizionali, popolare e socialista, potrebbero godere di un aumento inaspettato dei consensi, con Rajoy come chiaro frontrunner. Per ora però tutti i partiti sembrano molto lontani dalla maggioranza di 176 seggi, e anche i loro leader, in barba alle norme basilari della strategia elettorale, parlano senza infingimenti di coalizioni, alleanze, sostegni esterni, governi di minoranza, come se tutti fossero consapevoli che alla fine la maggioranza non ci sarà.

 

“Nessun partito vuole che gli elettori votino pensando in termini di coalizione, ma tutti sono pronti ad alleanze disparate”, dice al Foglio Manuel Álvarez Tardío, professore di Storia del pensiero politico all’Università Rey Juan Carlos di Madrid e docente del Instituto Atlántico de Gobierno di Madrid. I leader ormai sono convinti che la distruzione del vecchio ordine politico sia un dato di fatto, e anche Rajoy, finora difensore strenuo del sistema bipartitico che ha garantito stabilità alla Spagna dai tempi del suo ritorno alla democrazia, ha subìto una grave delusione lunedì sera, durante il dibattito televisivo con il socialista Sánchez, l’ultimo prima delle elezioni del 20 dicembre e l’unico cui Rajoy abbia accettato di partecipare, per una strategia di boicottaggio dei partiti emergenti e difesa del bipolarismo. Durante il dibattito Sánchez, la sua controparte bipolare, ha usato gli stessi argomenti rabbiosi degli estremisti di Podemos (gli scandali di corruzione che hanno colpito gravemente i popolari), con toni durissimi per gli standard spagnoli (“lei non è una persona decente!”) e rifiutandosi quasi di parlare di dati e programmi, tanto che alla fine Rajoy ha esclamato: “Hasta ahí hemos llegado”, siamo arrivati a questo punto, segno di costernazione del politico che non riconosce più il suo avversario di sempre. “Sánchez ha deciso che Podemos e Ciudadanos sono i veri rivali del Psoe e ha voluto scendere al loro livello”, dice Álvarez Tardío. “Ma in questo modo ha iniziato a disputarsi il voto demagogico con gli emergenti, e paradossalmente ha smesso di essere l’alternativa bipolare al Pp. In queste elezioni, i socialisti hanno smarrito il loro ruolo storico nella democrazia spagnola, e questo è un problema di ubicazione ideologica: è dai tempi di Zapatero che hanno perso la battaglia per il centro”. Rajoy era pronto a una discussione fredda e civile, aveva portato i numeri, i dati economici, le tabelle con i risultati del governo, ma davanti agli attacchi feroci di Sánchez è parso turbato. Non è per forza una falla nella strategia comunicativa. “E’ parte della natura tecnocratica della leadership di Rajoy non farsi trascinare nel dibattito”, dice Álvarez Tardío. “Rajoy ha fatto della gestione, dell’esperienza e dei risultati la cifra del suo governo e della sua campagna, per lui lo scontro ideologico aggiunge rumore e confusione, e rallenta solo la soluzione dei problemi”. Intorno a quest’aura di superiorità tecnocratica il premier ha giocato tutta la campagna elettorale, isolato in favore del bipolarismo e della stabilità, convinto che “certe scelte siano giuste in quanto tali”, e non perché dipendenti da un’ideologia.

 

Il candidato tossico e la frammentazione

 

[**Video_box_2**]“La strategia elettorale di Rajoy è stata intelligente”, dice al Foglio Ángel Rivero Rodríguez, professore di Scienza politica all’Università Autonoma di Madrid, e anche lui docente dell’Instituto Atlántico de Gobierno. “Ha diviso il campo tra i partiti di governo e i moralizzatori della vita politica, e anche il Psoe è finito in quest’ultima categoria. In queste condizioni, rifiutare un dibattito elettorale che ha reso impossibile una discussione seria su programmi e progetti futuri ha portato benefici al premier”. La strategia però è anche rischiosa, perché, stando alle dichiarazioni, tutti i leader principali oggi rifiutano un’alleanza con il Partito popolare, ultimo difensore della stabilità e in questo senso tossico per la retorica di “rigenerazione democratica” portata avanti dai partiti emergenti. Il Partito popolare vincerà le elezioni, ma se non otterrà la maggioranza troverà molti ostacoli. Perfino Albert Rivera, leader di Ciudadanos, che ha ampie affinità con i popolari (“il suo fine non è un cambiamento del sistema ma semplicemente dei soggetti che operano nel sistema”, dice Rivero Rodríguez), ha detto in più occasioni che un’alleanza con Rajoy sarebbe un tradimento dei suoi elettori. “La campagna elettorale è stata rumorosa e sgradevole”, dice Rivero Rodríguez (ieri Rajoy è stato perfino colpito in faccia da un diciassettenne durante un evento a Pontevedra, che gli ha rotto gli occhiali con uno schiaffo), “ma dopo il periodo elettorale la governabilità tornerà a essere un valore, e le posizioni degli altri partiti si modereranno”. “La frammentazione in Parlamento può far pagare un prezzo molto alto alla Spagna”, aggiunge Álvarez Tardío. Sempre che non si avveri il miracolo inglese.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.