Yoshihide Suga parla ai membri della nuova unità giapponese antiterrorismo (Shizuo Kambayashi)

Dopo l'esercito, adesso il Giappone riforma le sue spie. L'effetto Parigi

Giulia Pompili
Il capo di gabinetto del governo, Yoshihide Suga, ha inaugurato la nuova unità di controterrorismo. Si chiama Counterterrorism Unit-Japan e avrebbe dovuto essere istituita la prossima primavera, ma gli attentati in Francia ne hanno accelerato l'iter.

Roma. L’altro ieri il capo di gabinetto del governo, Yoshihide Suga, ha inaugurato la nuova unità di controterrorismo giapponese. Nuova, perché il Giappone fino all’altro ieri non aveva una unità di controspionaggio indipendente e coordinata con le varie agenzie. L’unità, che si chiama Counterterrorism Unit-Japan (CTU-J), fortemente voluta dal primo ministro Shinzo Abe, avrebbe dovuto essere istituita la prossima primavera, ma gli attentati di Parigi del 13 novembre hanno suggerito ai funzionari di accelerarne la costituzione. L’evento ufficiale di martedì scorso, ospitato nell’ufficio del primo ministro, nella migliore tradizione giapponese aveva un significato formale e un altro più intelligibile. I venti nuovi ufficiali del Ctu-J erano seduti al centro, rivolti verso lo scranno delle autorità, tutti vestiti uguali. Ai fotografi e ai giornalisti è stato chiesto di restare dietro di loro, così che nelle foto di rito i venti 007 nipponici comparissero solo di spalle, irriconoscibili. Marziali, invisibili. E’ la nuova classe di spie che dovrà fare concorrenza al Guoanbu cinese, l’unità del ministero della Sicurezza nazionale di Pechino che ha già una lunga tradizione in patria e all’estero, conta agenti pressoché ovunque e condivide ben poche informazioni. Suga ha spiegato che l’unità di base avrà a disposizione 126 milioni di yen (2 milioni di euro) risparmiati dal 2015, e coinvolgerà i venti ufficiali più altri venti spie assegnate ad altrettante missioni diplomatiche. Non è un caso che il Giappone abbia deciso di ristrutturare radicalmente la sua capacità d’intelligence adesso, pochi mesi dopo la riforma dell’interpretazione dell’articolo 9 della Costituzione giapponese, che impediva a Tokyo di partecipare alle azioni di guerra fuori dal proprio territorio. La Ctu-J, inoltre, vigilerà sui prossimi eventi che ospiterà il Giappone e che sono considerati ad alto rischio: il G7 del maggio 2016 si terrà nella prefettura di Mie, intorno al santuario scintoista di Ise, tra i più frequentati dal premier Shinzo Abe e dalla famiglia imperiale e quindi ben attrezzato per le misure di sicurezza. Nel 2019 il Giappone poi ospiterà la Coppa del mondo di rugby, e l’anno successivo le Olimpiadi.



Ma come è possibile che un paese membro del G7 avesse un sistema di raccolta informazioni piuttosto confusionario e carente, soprattutto sul cosiddetto HuMint, lo human intelligence? Si tratta di ragioni storiche, legate allo smantellamento post bellico di tutti gli apparati di sicurezza giapponesi. Il Giappone tradizionale e pacifista ha ancora oggi una certa riluttanza a parlare di spionaggio. Ed è il motivo per cui la riforma dei servizi si aspettava da così tanto tempo. Durante la Seconda guerra mondiale due agenzie lavoravano per Tokyo: il Tokko, un’unità che faceva parte delle forze di polizia, diretta dal governo e concentrata sull’ordine interno: dissidenti, comunisti, etc. L’altra agenzia, il Kempeitai, era la polizia speciale dell’esercito responsabile del controspionaggio per le colonie nipponiche e comunque sempre in relazione agli interessi all’estero del Giappone. “Entrambe erano famose per la loro brutalità”, dice al Foglio Corey Wallace, Einstein fellow all’università Freie di Berlino: “Per evitare di ricordare la ‘polizia segreta’, sin dalla fine della guerra il governo ha usato sempre con cautela l’espressione ‘servizi segreti’, le agenzie erano deputate alla semplice raccolta di ‘informazioni’”. E dunque per anni, spiega ancora Wallace, “le funzioni di informazione e di raccolta di informazioni del governo giapponese sono state divise tra varie agenzie e diversi capi politici”, dice Wallace. “Non è stato considerato un problema rilevante fino alla metà degli anni Novanta, quando il Giappone ha subìto il primo attacco terroristico sul proprio suolo – quello del gruppo Aum Shinrikyo con il gas sarin – e la Corea del nord non ha iniziato a lanciare missili e ad accelerare il suo programma nucleare”. A quel punto, spiega Wallace, si è manifestata l’insufficiente preparazione del governo giapponese sui problemi di sicurezza. “L’11 settembre e l’ascesa dei movimenti terroristici nel sud-est asiatico hanno rivelato la necessità di una raccolta di informazioni più mirate, e per la verità Tokyo lavora a una riforma da almeno una decina di anni”. Ma il problema è soprattutto quello relativo alla mancanza di una legge sulla “cospirazione”. “Il Giappone è un caso anomalo”, dice Wallace, “perché non ha una legge che permette di detenere persone che stanno chiaramente complottando o preparando atti criminali di violenza contro la società o il governo”. E il motivo è sempre storico e dell’uso della legge da parte delle agenzie di intelligence durante l’epoca pre-bellica. Su questo punto il Partito liberal-democratico, attualmente al governo, sta cercando di lavorare per l’approvazione del Parlamento, anche perché proprio per questa falla legislativa il Giappone non ha potuto ratificare l’accordo delle Nazioni Unite sul crimine organizzato.



Per Rodger Baker, vicepresidente dell’agenzia privata d’intelligence Stratfor per la sezione Asia-Pacifico, “il Giappone non si è mai concentrato sul controterrorismo, eccezion fatta per i piccoli gruppi domestici legati all’ideologia comunista e per la Corea del nord”. “In passato gran parte dei problemi di sicurezza del Giappone sono stati gestiti dagli Stati Uniti”, dice al Foglio Baker, “e il ruolo del Giappone a livello internazionale dava a intendere che il paese non potesse essere un bersaglio diretto per il terrorismo internazionale. Questo ha iniziato a cambiare dopo la crisi degli ostaggi del 1996 all’ambasciata giapponese in Perù, dopo l’uccisione da parte di al Qaida di un cittadino giapponese nel 2004, e dopo l’uccisione di due ostaggi giapponesi da parte dello Stato islamico nel gennaio di quest’anno”. Eppure, qualche settimana fa, una piccola bomba è esplosa al santuario Yasukuni, uno dei più controversi della storia giapponese. Perché, in quel caso, non si parla di terrorismo? “Le autorità stanno ancora investigando, e il sospetto è che il responsabile sia un coreano della provincia di Cholla-Bukdo. Tokyo è molto prudente nel dare informazioni sulla natura politica e sensibile dell’accaduto. In ogni caso è stata una piccola esplosione, non ci sono stati danni o feriti, e quindi c’è una percezione diversa in Giappone rispetto ad atti terroristici diretti contro le persone”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.