Il primo ministro giapponese Shinzo Abe durante il programma della Fuji tv “Minna no Nyusu” spiega con un plastico la riforma delle Forze di autodifesa giapponesi

La guerra di Shinzo Abe

Giulia Pompili
Il Giappone azzoppato da una Costituzione di 70 anni fa non può difendere gli alleati (Obama) e partecipare al conflitto globale. Il premier vuole cambiare tutto (prosciutto permettendo).

Noi non stiamo facendo politica per il consenso. Noi vogliamo fare ciò che dobbiamo”. La frase che Shinzo Abe, premier del Giappone dal 26 dicembre del 2012, ha pronunciato domenica scorsa in tv suona un po’ autoritaria. Eppure, nonostante i sondaggi che danno il gradimento della sua amministrazione in caduta libera, Abe tira dritto: il Giappone ha bisogno dell’America, e l’America ha bisogno del Giappone. Riarmato.

 

Sin dalla sua elezione, uno dei punti chiave dell’agenda del governo di Abe è stato quello di cambiare il ruolo del paese nelle controversie internazionali. Sembra che ci sia quasi riuscito. Giovedì scorso il disegno di legge sulla sicurezza ideato dal Partito liberal democratico (LDP) – il movimento conservatore, al governo in coalizione con Komeito – è passato alla Camera bassa della Dieta nazionale. Il giorno precedente il testo è stato esaminato dalla Commissione speciale della Camera e quella che generalmente è un’aula molto tranquilla e pacifica si è trasformata in un campo di battaglia: i membri dell’opposizione hanno contestato la strategica mossa di Abe, che alla Camera Alta – passaggio successivo per l’approvazione della legge, dove dovrebbe arrivare entro la fine di settembre – ha una forte maggioranza .

 

Del resto, si tratta di riaffermare il ruolo del Giappone nel mondo. Perché Shinzo Abe insegue questo disegno strategico? Quando nel Dopoguerra gli americani riscrissero la Costituzione nipponica, inserirono anche quell’articolo 9 che per settant’anni vietò al Giappone di dotarsi di un esercito. A disposizione di Tokyo esistono solo Forze di autodifesa, che dipendono dal ministero della Difesa dotato di un bilancio tra i più alti del mondo. Conseguenza: per settant’anni il contributo di Tokyo alle vicende internazionali è stato soltanto quello che viene definito in gergo “dello staccare l’assegno”. Contributi economici, ma niente boots on the ground. Le Forze di autodifesa, infatti, fino a oggi possono intervenire soltanto in caso di attacco diretto su territorio giapponese. Il caso di scuola che si cita sempre per spiegare la differenza è quello di un attacco nordcoreano contro Guam, l’isolotto dell’arcipelago delle Marianne che dista duemila chilometri e mezzo da Tokyo ed è territorio americano. Se Pyongyang decidesse di attaccare Guam, gli Stati Uniti sarebbero soli, perché l’esercito giapponese (ops, le forze di autodifesa) non potrebbero venire in soccorso dell’alleato. Il Giappone post atomica – si celebra il settantesimo del bombardamento nucleare tra il 6 e il 9 agosto prossimo a Hiroshima e Nagasaki – rinunciò alla guerra, senza imposizioni. E qualunque governo abbia tentato di intensificare il contributo “proattivo alla pace” del Giappone si è scontrato con la difficoltà di modificare le leggi costituzionali. La Carta nipponica è perfino più rigida di quella italiana (che all’articolo 11 “ripudia la guerra”) e impone che ogni legge costituzionale, dopo la votazione parlamentare, prima di entrare in vigore sia sottoposta a referendum popolare. Sono procedure molto rigorose che rischiano di bloccare la revisione costituzionale, ma Shinzo Abe ha deciso di usare una via di fuga: un pacchetto di leggi ordinarie per modificare e integrare l’interpretazione dell’articolo 9. “Essendo soltanto una reinterpretazione della Costituzione e non una riforma costituzionale formale, è richiesto soltanto un voto di maggioranza, senza un referendum”, spiega al Foglio Franz-Stefan Gady, senior fellow all’EastWest Institute e direttore del giornale online Diplomat.  “E’ quindi molto probabile che gli undici decreti sulla sicurezza passino la Camera Alta”, prosegue Gady che però avverte: “Tuttavia, il governo Abe subirà un significativo contraccolpo pubblico che potrebbe avere un impatto negativo sul suo futuro come primo ministro”. In effetti la risposta dell’opinione pubblica allo stratagemma di Abe è stata dura e coordinata. “Noi non tollereremo la politica di Abe” è lo slogan usato per le manifestazioni di sabato scorso in tutte le grandi città del Giappone. Davanti alla Dieta di Tokyo (il Parlamento nipponico) almeno seimila persone hanno protestato contro la legge sulle forze di autodifesa. Altre manifestazioni sono state organizzate a Kyoto, a Hiroshima, a Nagoya, a Fukuoka. Tutti i manifestanti avevano lo stesso cartello in mano: “Noi non tollereremo la politica di Abe”, slogan che poteva essere stampato gratis nella rete di tipografie collegate con l’opposizione o semplicemente scaricato da internet. La grafia del messaggio è quella di Tota Kaneko, celebre poeta giapponese di haiku, oggi novantacinquenne. Kaneko era in forza alla Marina imperiale giapponese nel ’44, e si è detto pronto a manifestare contro il governo pur di non far rivivere a nessun altro gli orrori della guerra. Al fianco di Kaneko c’erano la scrittrice 85enne Hisae Sawachi e uno dei giornalisti più famosi del Giappone, Shuntaro Torigoe. Anche il regista di fama mondiale Hayao Miyazaki ha manifestato pubblicamente qualche giorno fa la sua contrarietà alla mossa di Abe. Motivo per cui Jake Adelstein (uno dei veterani fra i commentatori di affari giapponesi) ha scritto sul Daily Beast: “Quando il Walt Disney giapponese, Hayao Miyazaki, si rivolta contro di te, allora hai perso la guerra per il supporto pubblico in Giappone. Puoi vincere ancora qualche battaglia, ma nel tribunale dell’opinione pubblica il favore nei tuoi confronti è perso”.

 

“Il Giappone sta affrontando una crisi costituzionale”, ha scritto Lawrence Repeta, ordinario di Legge all’Università Meiji di Tokyo, in un articolo segnalato da Andrea Ortolani (docente di Diritto e autore del blog Diritto Giapponese). “La coalizione di governo si propone di far passare una legge che ribalta il divieto di lunga data della nazione di ‘autodifesa collettiva’. L’opinione degli esperti è quasi unanime: queste proposte violano l’articolo 9, le misure pacifiste della Costituzione del Giappone. Il 12 giugno 225 costituzionalisti hanno firmato una dichiarazione pubblica di condanna il disegno di legge come incostituzionale. La lista comprende docenti rispettabili di ogni università giapponese. Ma non importa. Il primo ministro Abe e i suoi amici a Washington dichiarano di conoscere meglio la Carta”. Citofonare Washington. Tra i più strenui sostenitori del cambiamento del ruolo del Giappone nel mondo ci sono proprio gli Stati Uniti d’America. Per Gady, infatti, la riforma non avrà molto effetto sulle questioni meramente militari: “Cambierà molto poco per le forze di autodifesa giapponesi. Tuttavia, questo cambierà radicalmente la natura dell’alleanza tra Giappone e Stati Uniti – che di fatto è rimasta invariata negli ultimi tre decenni – anche in base alle nuove linee guida sulla Difesa Usa-Giappone”, rese pubbliche a fine aprile di quest’anno e che sostanzialmente rendono globale l’alleanza militare tra i due paesi.

 

Poco più di un anno fa, Shinzo Abe aveva annunciato anche l’alleggerimento del bando dell’esportazione di armamenti da parte del Giappone, un’altra misura sostenuta da Washington: “Le aziende giapponesi dovranno imparare a competere sul mercato globale delle armi”, spiega Gady. Come funzionava  il mercato prima? “Il ministero della Difesa era l’unico cliente dell’industria bellica giapponese, oggi mancano competenze di marketing e per il trasferimento tecnologico. Inoltre, i ceo delle grandi società non sembrano così entusiasti di aprirsi a mercati esteri. Come primo passo e per facilitare le esportazioni di armamenti, Tokyo sta progettando di istituire una nuova agenzia sul modello della Defense Security Cooperation Agency, l’agenzia del dipartimento della Difesa statunitense responsabile per la vendita di armi, la formazione, i servizi per gli alleati, e il mantenimento dei contatti tra i militari con le nazioni alleate”. Modello americano. Il motivo di questa rinnovata coalizione è chiaro: Washington non riesce più a tenere aperti ulteriori fronti di guerra. E il fallimento della strategia a Oriente, che il presidente americano Barack Obama chiamava pivot asiatico, è sotto gli occhi di tutti: la Cina ha campo libero nel Pacifico, ed è sua la responsabilità diplomatica anche di una delle minacce nucleari più sottovalutate della storia contemporanea: la Corea del nord. Da un paio di anni ormai Tokyo ha intensificato la propaganda per giustificare sul piano geopolitico un diverso impegno del Giappone nelle questioni dell’area. L’ultimo atto, in ordine di tempo, viene dal ministero della Difesa. Il libro bianco della Difesa, approvato tempestivamente pochi giorni fa dal gabinetto di Abe, riconosce nella Cina la più evidente minaccia per la stabilità del Pacifico. Sono state pubblicate alcune fotografie che mostrano la costruzione di alcune isole artificiali nel Mar cinese orientale, isole ufficialmente usate da Pechino come piattaforme per cercare petrolio e gas. Alla richiesta da parte del governo di Tokyo di fermare la costruzione in territori non cinesi, Pechino ha replicato riservandosi il diritto di rispondere con “ogni reazione necessaria” contro il Giappone. La situazione tra i due paesi è molto tesa.

 

Per noi che guardiamo agli affari orientali con gli occhiali dell’occidente, in tutto questo gioco di equilibri e di carri armati, però, resta una sottile contraddizione: i conservatori al governo di Tokyo che sostengono l’alleanza con l’America oltre ogni ragionevole dubbio, sono gli stessi che usano  della retorica nazionalistica per risvegliare il sentimento d’orgoglio del Giappone imperiale. Un altro nodo fondamentale per la sopravvivenza dell’Amministrazione Abe è proprio quello delle scuse formali che il premier dovrebbe pronunciare il 14 agosto prossimo, scuse per il passato imperialista, per le “donne di conforto” sudcoreane. Domenica, durante l’intervista alla televisione, Shinzo Abe ha rinnovato l’intenzione di non voler rinnovare le scuse per il passato giapponese. Per ora, al posto suo, lo ha fatto pochi giorni fa la Mitsubishi, che ha chiesto scusa all’America per aver usato soldati americani come schiavi durante la Seconda guerra mondiale.

 

All’inizio del suo mandato come premier, Abe aveva promesso di fermare la deflazione, rilanciare l’economia e la crescita, rivoluzionare il sistema dei diritti acquisiti, delle lobby, far tornare le donne a lavorare. La ricetta dell’Abenomics, la rivoluzione economica che porta il suo nome, avrebbe dovuto essere anche una rivoluzione culturale. E un primo risultato culturale, di sicuro, l’ha portato a casa: il ritorno di un interesse per la politica da parte dei giapponesi, che fino a poco tempo fa si curavano poco delle vicende del Kantei, il palazzo del governo di Tokyo. Dopo tre anni di governo Abe, l’opposizione si è riorganizzata. Quantomeno, adesso è visibile. C’è il Partito democratico (privo, per la verità, di un vero leader), c’è il Partito comunista e poi c’è quella che da noi si chiama la società civile. Sono loro ad aver manifestato anche in occasione dell’approvazione di un’altra legge molto controversa, quella sul segreto di stato, approvata in via definitiva nel dicembre del 2013. E sono loro a prendere le difese dei cittadini dell’arcipelago di Okinawa e del suo governatore, da decenni di fronte al problema della presenza militare americana. “Il governo ha sottovalutato il contraccolpo politico”, spiega Gady. “L’opposizione è in gran parte quella storica, ma c’è anche una parte della società più culturale: il pacifismo è servito come forza unificante nel paese e ha contribuito a forgiare nel Dopoguerra una comune identità nazionale. Le proteste saranno pesanti e a me sembra che Shinzo Abe abbia sottovalutato la percezione del popolo giapponese che il pacifismo è intrinsecamente connesso all’identità post bellica del Giappone”.

 

[**Video_box_2**]Sondaggi negativi e indifferenza di Abe? Naturalmente non è vero che i sondaggi non siano importanti per il Partito liberal democratico di Abe. Il premier giapponese all’inizio di luglio, durante l’assemblea del suo partito, aveva detto che avrebbe voluto andare in tv a spiegare ai cittadini il suo pacchetto di leggi sulla sicurezza. E lo ha fatto nei giorni scorsi, partecipando lunedì sera al programma “Minna no Nyusu” (le notizie per tutti) sulla Fuji tv. Abe si è sottoposto alle domande degli spettatori, nel momento più basso del suo indice di gradimento (sotto il 30 per cento). Poi ha tirato fuori un curioso plastico – una casa giapponese confinante con una casetta americana e poi una più grande, dalle quali esce del fumo, la rappresentazione di una casa che va a fuoco – ma in realtà sembrava un prosciutto. Negli ultimi tre giorni si è parlato tantissimo di quel tentativo di Shinzo Abe di rendere popolare il pacchetto di leggi sulla sicurezza. Ma su Twitter si è discusso del fumo che usciva dalla casa che sembrava un prosciutto. I contorni pop della vicenda regalano, come consuetudine nelle vicende politiche giapponesi, molti aneddoti divertenti. Il Partito liberal democratico di Abe sa perfettamente che uno dei settori nei quali la politica giapponese ha sempre avuto difficoltà è quello della comunicazione. Per questo il 2 luglio scorso sul sito del partito è stato pubblicato un anime, un cartone animato dal titolo “Oshiete! Hige no Taicho”, che significa “Spiegaci! Capitano baffuto”. Il protagonista del cartone è, per l’appunto, il baffuto colonnello Masahisa Sato, ora deputato della Dieta giapponese ed ex comandante delle Forze di autodifesa giapponesi. Fu lui a guidare il battaglione nipponico che per la prima volta venne dispiegato all’estero nel 2004, tra le proteste dell’opposizione. George W. Bush aveva bisogno di aiuto in Iraq, e con uno stratagemma l’amministrazione dell’ex premier (e mentore di Shinzo Abe) Junichiro Koizumi riuscì a mandare in Iraq dieci contingenti tra il 2004 e il 2006. Tutto a posto? No, perché qualche giorno dopo è stato pubblicato dall’opposizione un contro-filmato, che in poche ore è diventato più virale di quello del governo.

 

L’articolo 9 della Costituzione giapponese recita: “Aspirando sinceramente a una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, e alla minaccia o all’uso della forza, quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. Per conseguire l’obbiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”. Forse la Costituzione più bella del mondo è quella del Giappone, con buona pace degli sventolatori di Carta nostrani. Come andrà a finire? Lo vedremo presto. Intanto, la storia cambia gli scenari e la società civile giapponese dovrebbe rendersi conto che la guerra oggi oltrepassa i confini senza bussare. Tenere zoppa la propria Difesa è un’utopia. Pericolosa.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.