Barack Obama con Vladimir Putin (foto LaPresse)

Putin e Obama non s'intendono sul termine “terrorismo”: è iniziata (anche) la guerra delle parole

Paola Peduzzi
Washington prova a fidarsi di Mosca, ma scopre presto che la mancanza di trasparenza accentua le inconciliabilità sul conflitto in Siria. Il confronto con l’Ucraina.

Milano. Da quando Vladimir Putin si è intestato la guida della guerra globale al terrorismo – una guerra che conduce assieme con l’Iran, con Hezbollah, con la Siria, cioè con grandi sostenitori del terrorismo globale – si sprecano le metafore sui balli o sui combattimenti di judo, a seconda del romanticismo dei commentatori: laddove il presidente russo avanza, Barack Obama arretra. I due “sono diventati i Fred Astaire e Ginger Rogers della politica estera”, tuìtta David Rothkopf, analista di Foreign Policy; “Putin è un judoka, sa come sfruttare le debolezze dell’avversario – scrive l’Economist – Se Obama fa un passo indietro, lui spinge in avanti con più forza” (varrebbe anche il contrario, ma non accade). In questo gioco delle parti, ci si illude che i due ballerini o combattenti stiano giocando, come dicono gli americani, nello stesso “playground”, balera o materasso che sia, ma non è così, come ha esplicitato lo stesso Sergei Ivanov, chief of staff di Putin: con la missione in Siria vogliamo difendere i nostri interessi nazionali. Che, a occhio, non sono gli stessi della coalizione a guida americana. Come si fa allora a gestire insieme una guerra globale contro il terrorismo, addirittura a vincerla insieme? Di più: come è possibile trovare insieme un accordo sul futuro della Siria?

 

All’origine della presunta, a tratti auspicata, collaborazione nei cieli siriani – la collaborazione non c’è, ma si sta trattando – c’è una contraddizione: Putin è ufficialmente isolato dalla comunità internazionale a causa della guerra in Ucraina (il G8 in questo momento è sospeso, si riunisce il G7: si ricorderà quanto questa esclusione abbia logorato i paesi europei e l’America, e abbia fatto tornare vivissimo in Russia il sentimento di essere sotto attacco dell’occidente, e vivissima l’urgenza di reazione a un sopruso), ma allo stesso tempo è l’interlocutore di riferimento nella gestione della crisi mediorientale, perché, come dice il premier Matteo Renzi, la Russia è un grande paese e soltanto parlandoci si possono risolvere i problemi globali. Isolato e cruciale: è possibile? Che genere di trattativa si può mettere in piedi con un leader politico sotto sanzioni per aver scatenato e alimentato un conflitto ancora in corso nel cuore dell’Europa? Come si fa a negoziare con un leader politico che smentisce tutto quel che l’occidente denuncia? Soprattutto: come si fa a fidarsi? Be’, ci siamo fidati degli iraniani, si dirà, si può fare anche con i russi. Ma è proprio questo il punto: può funzionare una strategia che si fonda su due scommesse tanto pericolose? Perfino i manuali di realpolitik tanto cari all’attuale leadership occidentale sconsigliano: a queste condizioni l’accordo pare quasi impossibile.

 

Putin non si preoccupa di creare presupposti a un dialogo: dice agli americani di andare assieme a combattere il terrorismo e appena le bombe iniziano a cadere spiega che tutto quel che dicono gli americani sono bugie. Si sono sprecati toni nemmeno troppo avvincenti sul tema “la propaganda russa vs la propaganda occidentale”, ma la mancanza di trasparenza – che in Russia è una strategia militare, si chiama “maskirova” – resta a ingarbugliare una relazione già problematica. Nell’intervista con Charlie Rose che ha aperto la trasferta newyorchese all’Onu, Putin ha fissato alcuni elementi della sua visione della Siria inconciliabili con quelli occidentali, salvo poi presentarsi in pubblico a dire di essere pronto a qualsivoglia collaborazione. Per Putin le “barrel bomb” non sono mai state gettate dalle forze aeree di Bashar el Assad sulla sua popolazione; per Putin tutti i gruppi presenti sul terreno in Siria sono terroristi “creati e armati da potenze straniere”, per questo ha pensato di iniziare la campagna con gli strike colpendo i gruppi che sono stati addestrati dalla Cia; per Putin – e questa forse è la frase che meglio rende l’idea della contraddizione – “offrire aiuto militare alle organizzazioni illegittime contravviene ai princìpi della legge internazionale e dello statuto dell’Onu: noi sosteniamo soltanto entità governative legali”, come a ribadire che in Siria sono tutti terroristi tranne i fedeli al regime di Assad e che gli “omini verdi” nell’est dell’Ucraina, le colonne di soldati e carri armati fotografate dai satelliti della Nato, sono un abbaglio della propaganda occidentale.

 

[**Video_box_2**]In queste ore, la guerra delle parole sta generando uno scontro ancora più acceso. L’occidente dice che la Russia colpisce obiettivi in Siria che non hanno nulla a che fare con lo Stato islamico, la Russia risponde, con toni veementi, che “non ci sono prove delle dichiarazioni senza fondamento che circolano”, come ha detto ieri il capo della commissione Esteri della Duma russa. Cartina alla mano, si vede che la Russia sta bombardando nell’ovest della Siria, quando lo Stato islamico è prevalentemente a est. Se vale la metafora del ballo – che è troppo dolce in questo contesto di guerra – Putin sta per pestare i piedi a Obama, e un accordo sulla Siria resta lontano.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi