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Oltre la commozione. Commenti internazionali per evitare un nuovo "caso Aylan"

Redazione
Molti media internazionali e uomini politici non si sono lasciati dominare dalla tragedia, e ai sensi di colpa preferiscono un intervento reale. Rassegna

Il dibattito nato intorno alla foto del corpo di Aylan al Kurdi, il bambino siriano di tre anni rinvenuto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, non si è limitato alla retorica della “wake up call”, ai richiami alla (pur necessaria) solidarietà dettati unicamente dall’emozione. Molti media internazionali e uomini politici hanno cercato di non lasciarsi dominare dalla commozione, affinché fenomeni epocali come l’ondata migratoria di questi mesi non siano gestiti sulla base della tragedia. Ha cercato di farlo il cancelliere dello scacchiere britannico George Osborne, che ieri ha ricordato ai sensi di colpa dell’occidente che la morte di Aylan è stata colpa di “gang criminali” e dei miliziani dello Stato islamico, la cui violenza ha costretto la famiglia del bambino a fuggire da Kobane.

 

Il britannico Telegraph scrive in un editoriale che “la gestione della crisi non è abbastanza. Serve una politica coerente e di lungo termine per risolvere il problema alla fonte. Per farlo c’è bisogno di uno sforzo internazionale rinnovato per fermare la guerra civile siriana e distruggere lo Stato islamico, benché nessuno dei due obiettivi sembra raggiungibile in breve tempo”. La soluzione migliore resta quella di accogliere i rifugiati “in campi nei paesi confinanti con la Siria, nella speranza che un giorno possano tornare a casa”. “E’ una posizione morale e ragionevole, ma difficile da sostenere quando sei accusato di essere senza cuore”, e certo la commozione per Aylan non aiuta. Il Telegraph cita anche la “dimensione internazionale” della crisi, ricordando, come si può leggere anche sul Foglio, come i paesi arabi, con l’eccezione di quelli che confinano con la Siria, sono stati finora rapidi nelle accuse ma “riluttanti negli aiuti”.

 

Sul Washington Post, Adam Taylor spiega che la foto di Aylan nasconde una “uncomfortable truth”, e cioè che la crisi dei rifugiati non è esclusivamente un affare europeo, ma anche americano. Non è possibile accusare i governi del Vecchio continente di non fare abbastanza senza capire che l’America è coinvolta nella crisi quanto l’Europa, e che la situazione siriana deve essere risolta in maniera coordinata. Ancora sul Washington Post, Ishaan Tharoor riprende il report di Amnesty International secondo cui i paesi arabi, e soprattuto i ricchi paesi del Golfo (Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Kuwait, Oman e Bahrain), nonostante il loro alto tenore di vita e gli accorati appelli alla solidarietà europea non abbiano accolto finora nemmeno un rifugiato siriano.

 

[**Video_box_2**]Sul Daily Mail, il columnist Richard Littlejohn denuncia il fatto che davanti alla foto del bimbo morto “Il giornalismo obiettivo, specialmente in televisione, è stato gettato fuori dalla finestra, per essere sostituito con emozioni New Age e posture politiche in stile ‘lasciamoli entrare tutti’ e ‘la colpa è tutta nostra’”. “Per quanto terribili questi casi possano essere, non si può basare su di essi le politiche di asilo”.

 

Per Brendan O'Neill sullo Spectator, la pubblicazione della foto di Aylan è segno del narcisismo ipocrita dell’occidente. “Dalle famose immagini dei bambini quasi morti di fame in Etiopia negli anni Ottanta alla moda barbara di condividere foto di bambini uccisi durante gli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza, il bambino triste o affamato o morto è diventato il sostituto dell’analisi seria o del commento razionale. Elimina il dibattito. ‘Non pensi che Israele sia malvagio? Ecco, guarda a questo bambino palestinese maciullato’. E’ moralismo da due soldi, che lascia che le emozioni si sostituiscano al ragionamento”. Questo moralismo applica inoltre un doppio standard, in cui l’umanitarismo è distribuito a singhiozzo.