La foto del bambino di Bodrum, l'orrore che proviamo e la viralità che ci assuefà a tutto

Stefano Sgambati
Il concetto di “foto” è mutato ontologicamente come un corpo biologico sotto l’effetto di radiazioni: le foto hanno imparato a correre hanno generato tentacoli e non sono più oggetto di mera osservazione, ma si possono riutilizzare. In definitiva dovrebbe essere questione di orrore. Di riuscire ancora a provare orrore.

La foto del piccolo cadavere di Bodrum ha fatto il giro del mondo in un tempo minore di quello che è stato necessario al fotografo per mettere a fuoco il soggetto. Lo sapeva il fotografo, lo sapeva l’agenzia che ha ricevuto lo scatto, lo sapevano i caporedattori dei giornali mentre ne davano conto ai loro direttori, i quali sapevano, lo sapevano i titolisti audaci. L’unico a non saperne niente era il morto, naturalmente, ma un morto a quanto pare non conta, non più: un morto è un simbolo, un morto è poetica, sembra, forse è politica, di sicuro è un grimaldello per coscienze sopite apparentemente inviolabili (ma ha senso cercare di risvegliare i morti coi morti?). Un morto, un morto bambino, a faccia in giù nella sabbia, è cronaca, è legittima difesa contro le storture del mondo; serve, è necessario o comunque è lecito. I “non possiamo nasconderlo”. I “non possiamo far finta di girarci dall’altra parte” (e perché?, vorrei chiedere io). Il diritto di cronaca e il dovere. Il morto come scorciatoia: un “bignami”. Ma va bene: lo shock è importante, fa discutere. Si parla di tutto e del contrario di tutto, si parla di opportunità, di deontologia, di pietà, tranne, naturalmente, che della questione dietro alla foto stessa, tranne che dei fatti. L’asilo politico, la condotta dell’Unione Europea. La gestione dell’emergenza umanitaria. Di questo non si parla. Si parla del perché pubblicare o no, e chi sceglie di pubblicare correda la prima pagina di un editoriale in cui spiega perché ha deciso di pubblicare.
Intanto la foto del piccolo cadavere di Bodrum ha fatto il giro del mondo un’altra volta, doppiando se stessa.

 

Lo scrittore di fantascienza Ray Bradbury una sessantina di anni fa teorizzò in una sua opera di finzione autostrade del futuro in cui i cartelloni pubblicitari ai lati delle carreggiate erano diventati giganteschi, grotteschi, davvero enormi, simili a mostruose facciate di palazzi, e questo perché, secondo l’autore, le automobili ormai viaggiavano a una velocità talmente elevata che quello era diventato l’unico sistema per rendere possibile la lettura del messaggio ai guidatori. Ray Bradbury d’altra parte era un genio e aveva capito, in un’epoca in cui Internet e i concetti di “condivisione” e di “tempo reale” erano lontani in un modo inquietante, che per mantenere inalterata la comprensione delle cose bisognava “sconfiggere” la velocità.

 

Oggi non esiste più il tempo organico di fermentazione dei concetti, come venticinque o settanta anni fa, e senza quel tempo organico niente può diventare un’icona, perché non esiste più niente che possa avere la meglio sulla propria ineluttabile “sostituibilità”: il piccolo cadavere di Bodrum non diventerà mai il ragazzo di Piazza Tienanmen o la bambina vietnamita in fuga dal napalm - come se poi le guerre e i soprusi del più forte sul più debole avessero mai rallentato grazie alla “sensibilizzazione” per immagini - per la semplice ragione che non ne avrà il tempo. Il concetto di “foto” è mutato ontologicamente come un corpo biologico sotto l’effetto di radiazioni: le foto hanno imparato a correre, per così dire, hanno generato tentacoli e non sono più oggetto di mera osservazione, ma si possono riutilizzare; si ricollocano e, soprattutto, arrivano alla comprensione delle persone troppo rapidamente, molto prima del senso. Una foto oggi non può più essere neutrale, non sa esserlo: addirittura può arrivare a “distorcere” il significato dell’accaduto che vorrebbe rappresentare poiché si applica e si diffonde attraverso la “suggestione” e non con l’approfondimento o il racconto, nonché tramite una metodologia moderna che ha un nome preciso e per cui non bisognerebbe mai fare il tifo: la “viralità”.
In definitiva dovrebbe essere questione di orrore.

 

[**Video_box_2**]Di riuscire ancora a provare orrore. Cioè di essere sensibili, sì, ma non assuefatti. E invece la “viralità” assuefà. Dovrebbe riguardare questo: di non curarsi se la foto di un bambino cadavere ci stia o no informando su una questione cruciale che riguarda noi e il mondo, di non parlare di opportunità, di deontologia, di giornalismo, di domandarsi se si poteva raccontare quello stesso fatto senza quella foto, o di scrivere questo stesso articolo, perfino: ma solo di provare orrore. Di vomitare. Il banale e dimenticato orrore, quel moto dell’animo che ci fa venire voglia di mettere una musica di Brahms o di infilarci in silenzio nella camera di nostro figlio per sentire che rumore fa il suo respiro mentre dorme o di telefonare alla persona che più amiamo solo per farci dire che sta bene, che è arrivata in ufficio; di combattere con tutte le armi in nostro possesso contro la sconvolgente idea che sia davvero possibile destarsi un mattino da sogni agitati e trovarsi trasformati nel proprio letto in un enorme insetto.