Il cancelliere dello Scacchiere inglese George Osborne mentre si prepara a presentare il Budget (foto LaPresse)

Lo scontro di civiltà sul salario minimo

Paola Peduzzi
“Alziamolo!”, gridano i politici progressisti e pure dei conservatoroni come gli inglesi. Per la popolarità si fa di tutto, ma a seguire le emozioni si rischiano illusioni pericolose, negli elettori e nel mercato del lavoro.

Milano. Il salario minimo è il feticcio del momento, se non vuoi alzarlo puoi anche dire addio alla popolarità, ritirarti anche, perché tanto nessuno ti vorrà ascoltare. Da quando persino il conservatorissimo cancelliere dello Scacchiere britannico, il potente George Osborne, ha annunciato che il salario minimo, dall’aprile dell’anno prossimo, sarà più alto – più alto persino di quanto promettevano i laburisti quando ancora sognavano di andare al governo – sono state sfondate le ultime barriere ideologiche che ancora resistevano. Innalzare il salario minimo non è nemmeno più (soltanto) di sinistra, siamo ormai prossimi a pretenderlo di diritto.

 

A New York, si vuole introdurre un salario minimo a 15 dollari, cifra astronomica per un paese in cui lo standard federale è di 7,25 dollari l’ora (i democratici al Congresso hanno proposto di portarlo a 12 dollari entro il 2020, ma i repubblicani si oppongono), ma soltanto per chi lavora in catene di fast food con almeno 30 locations. I datori di lavoro sono preoccupatissimi, perché significa avere uno svantaggio competitivo piuttosto riconoscibile all’interno dello stesso mercato (chi ha 25 negozi si guarderà bene, per esempio, di ampliarsi), ma sono gli altri lavoratori, di altri settori o di fast food più piccoli, i più indignati: perché loro sì e noi no?

 

Mentre anche la California si arma per la battaglia sul salario minimo, con l’Università della California che propone 15 dollari all’ora entro tre anni, i giornali liberal si riempiono di editoriali a sostegno della misura, con elenchi che riportano tutte le buone ragioni per volere un salario minimo alle stelle. Ma se il flusso mediatico occhieggiante pare inarrestabile, ci sono gli economisti, anche tra i liberal – il New York Times ne ha messi insieme un po’, molto dubitativi – che ricordano come l’innalzamento del salario minimo sia una di quelle operazioni dagli effetti imprevisti: non è detto che poi funzioni davvero.

 

David Brooks, editorialista del New York Times di area conservatrice, ha spiegato che fino all’inizio degli anni Novanta c’era un generale consenso tra gli economisti sul fatto che toccare i salari avrebbe avuto effetti perversi e non prevedibili: il mercato sa stabilire piuttosto bene i prezzi delle cose, anche del lavoro, e “se alzi il prezzo di un lavoratore, un datore di lavoro finirà per assumere meno persone, così l’effetto finale sarà negativo per le classi sociali che volevi aiutare”. Poi nel 1993 David Card e Alan Krueger (quest’ultimo sarebbe diventato capo del consiglio economico di Barack Obama tra il 2011 e il 2013) studiarono il mercato dei fast food in New Jersey e Pennsylvania e scoprirono che innalzando il salario minimo, i lavoratori guadagnavano di più ma l’occupazione non aveva subito tracolli. Di studio in studio, oggi il “minimum wage” è diventato centrale nei programmi economici dei progressisti, Obama e Hillary Clinton ne sono i grandi sostenitori, ma soprattutto lo sono i candidati più socialisteggianti. Ma il principio secondo cui alzare il prezzo del costo del lavoro non inficia la mobilità nel mercato è parecchio controverso.

 

Brooks cita alcuni studi della Federal Reserve, e soprattutto uno di due economisti dell’Università della California che hanno osservato l’impatto dell’innalzamento del limite federale del salario minimo del 2007 e hanno scoperto che, a livello nazionale (in America, s’intende), la probabilità che un lavoratore a basso reddito fosse assunto era diminuita di sei punti percentuali. Uno studio del Congressional Budget Office, organismo bipartisan, ha rivelato che un aumento del salario minimo a 10,10 dollari l’ora potrebbe portare 900 mila persone fuori dalla soglia di povertà, ma costerebbe circa 500 mila posti di lavoro. Brooks dice che capire davvero la bontà di questa misura economica è impossibile, ma certo si sa che ogni volta che si interviene sul mercato si producono conseguenze tanto involontarie quanto concrete. Milton Friedman, che di queste conseguenze ne ha rilevate e spiegate tantissime, diceva una cosa che pare molto di sinistra, cioè che i salari minimi erano una forma di discriminazione verso i lavoratori con meno skills, che in realtà dovrebbero essere sostenuti proprio da questa misura: se sai fare poco e costi tanto, per forza verrai eliminato dal mercato.

 

[**Video_box_2**]L’Economist, magazine britannico che ha celebrato le misure del cancelliere Osborne tranne, e con forza, l’azzardo – il coniglio nel cappello – sul salario minimo, è molto meno possibilista di Brooks: “Il movimento globale a favore di salari minimi più alti è pericoloso”. “Camionate di studi”, scrive l’Economist, dimostrano che bassi livelli di salari minimi non distruggono troppi posti di lavoro. Quando il Regno Unito fissò, con Tony Blair, un nuovo minimo salariale, tutti dicevano che il lavoro si sarebbe volatilizzato, “ma l’occupazione dimostrò la propria resilienza”. Incoraggiati, molti politici hanno iniziato a giocare con il salario minimo, pure se le condizioni economiche sono cambiate (quelli erano i meravigliosi anni Novanta), facendo promesse sempre più accattivanti, ma entrando “nella nebbia”, perché è piuttosto avventato pensare che se i salari minimi bassi non hanno creato grandi distorsioni non lo faranno nemmeno quelli più alti. Soprattutto, non c’è certezza, e si sa che per gli economisti questo è il problema meno superabile. Lavorando sul fronte delle tasse, dicono molti, si è molto più sicuri, perché riesci a proporre benefici sia ai lavoratori sia agli imprenditori, evitando quell’effetto perverso di lasciare fuori dal mercato del lavoro chi già fa fatica a entrarci. Ma nell’incertezza si possono intravvedere delle opportunità, come ha fatto Osborne sbaragliando tutti, soprattutto i suoi compagni di avventura, e provando a incamminarsi su una strada così rischiosa. Come in tutti gli amori folli, quel che conta è non farsi piegare dall’illusione.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi