Troppi vincoli in America, per fare hamburger non ci resta che la Cina

Redazione

C’è il problema del minimum wage, il salario minimo di 7,25 dollari l’ora sul quale da mesi i lavoratori dei fast food americani protestano e scioperano in tutto il paese – e l’Amministrazione Obama sta dalla loro parte, anche se su posizioni più moderate (i lavoratori vorrebbero portare il salario a 15 dollari l’ora, Obama si accontenterebbe di 10). C’è l’etanolo, il biogas ottenuto dal mais che si è preso gran parte dei raccolti e ha fatto aumentare il prezzo del mangime per i bovini e quindi della carne.

    C’è il problema del minimum wage, il salario minimo di 7,25 dollari l’ora sul quale da mesi i lavoratori dei fast food americani protestano e scioperano in tutto il paese – e l’Amministrazione Obama sta dalla loro parte, anche se su posizioni più moderate (i lavoratori vorrebbero portare il salario a 15 dollari l’ora, Obama si accontenterebbe di 10). C’è l’etanolo, il biogas ottenuto dal mais che si è preso gran parte dei raccolti e ha fatto aumentare il prezzo del mangime per i bovini e quindi della carne. C’è l’Obamacare, che è entrato a pieno regime a inizio anno (ma menomato dai giudici e dal suo stesso terribile funzionamento) e che impone ai ristoranti di acquistare per i dipendenti piani assicurativi spesso più costosi di quelli che si trovano sul mercato. Ci sono troppe regolamentazioni e condizioni fiscali svantaggiose. C’è un clima avverso, con la first lady che pianta i broccoli nel giardino della Casa Bianca, fa campagne martellanti contro l’obesità e vede i tripli hamburger come fumo negli occhi.

    Così per i proprietari di fast food, uno dei patrimoni nazionali d’America, le cose stanno iniziando a farsi più dure. E c’è chi, come Andy Puzder, proprietario della Cke Restaurants, gruppo che comprende le catene Carl’s Jr. e Hardee’s, sta iniziando a pensare che sia più conveniente vendere shu tiao a Shanghai o kartofel’ fri a San Pietroburgo piuttosto che patriottiche french fries. “Nell’attuale clima imprenditoriale degli Stati Uniti, regolamentazioni e vincoli fiscali finiscono per frenare energie imprenditoriali altrimenti dinamiche”, ha detto Puzder a Katie Little di Cnbc. “Ci piacerebbe vedere più crescita sul mercato interno. Sfortunatamente, è più facile aprire i nostri franchising in Siberia che in California”, ha aggiunto. I numeri sono notevoli: negli ultimi tre anni l’aumento dei ristoranti della Cke in America è stato del 2 per cento, del 53 nel resto del mondo. E le prospettive lo sono ancora di più: nei prossimi anni Puzder conta di aprire 500 ristoranti in Brasile, da zero che sono ora, e “mille o duemila” in Cina. L’espansione in Russia è “aggressiva”.

    Perfino in India, dove gli hamburger non li possono mangiare, ci sono prospettive di crescita (con crocchette di pollo e panini vegetariani), ma i nuovi paradisi del fast food rimangono la Cina, la Russia, l’est Europa. Luoghi dove le decisioni sono centralizzate e sempre esecutive anche a costo di essere violente, dove l’economia è libera dai lacci della burocrazia e dalle pastoie della tutela del lavoratore. Soprattutto, dove c’è una classe media che cresce, è sempre più ricca e sempre più vorace di hamburger, patatine fritte e salse made in Usa. “Continueremo a combattere la buona battaglia di aprire ristoranti e creare posti di lavoro” anche in America, dice Puzder, ma un governo troppo asfissiante ormai ha fatto sì che “eccetto l’Antartide, non mi vengono in mente altri paesi in cui non stiamo cercando opportunità”. Negli ultimi tre anni i ristoranti di Puzder all’estero sono diventati più di quelli in patria, è la prima volta per una grande compagnia come la Cke, ma per l’America, che sulla classe media che va al fast food in famiglia ha costruito parte della sua epopea, è un segnale preoccupante se si vendono più shu tiao che patatine fritte. Ancora di più lo è se per venderle bisogna bussare alla porta di governi che alle epopee americane preferiscono le decisioni (certo efficientissime) di un Politburo.