Il senatore Rand Paul annuncia la sua candidatura per la presidenza (foto LaPresse)

La corsa disperata del "nuovo" Rand Paul verso la Casa Bianca

Il senatore da tempo sta lavorando per rendersi appetibile a un pubblico repubblicano più vasto della nicchia antisistema che rappresenta, ma senza annacquare troppo il messaggio.

L’espediente retorico è quello del “take our country back”, la restaurazione dell’identità tradita; il simbolo, a tinte sacre, è una fiamma che arde, curiosamente simile a quella dell’altro candidato repubblicano che fin qui ha annunciato la sua candidatura alla presidenza, Ted Cruz (per la verità l’aveva usata anche l’improbabile magnate della pizza Herman Cain nel 2012). Prima della dichiarazione formale della candidature un predicatore nero di Louisville, Kentucky, guida il pubblico nella recita del Padre Nostro, si canta l’inno nazionale e tutto è pronto per l’ingresso del senatore Rand Paul, stella libertaria che da tempo sta lavorando per rendersi appetibile a un pubblico repubblicano più vasto della nicchia antisistema che rappresenta, ma senza annacquare troppo il messaggio. Quello che rende Paul un interessante animale della comunicazione è che quando parla sembra che davvero possa vincere le elezioni con dieci punti di distacco. Le urla dei suoi comizi sono sempre le più convinte, le facce sempre le più giovani e galvanizzate: è il destino di tutti i movimenti populisti che parlano con il linguaggio della pancia e della bile.

 

Ma Paul è nel mezzo di un percorso di ridefinizione del suo sistema di riferimenti. Nemmeno si definisce più un libertario: è un “different kind of repubblican”, un repubblicano diverso, uno che ogni volta che può ricorda che il suo nomignolo non deriva dalla filosofa dell’oggettivismo, Ayn Rand, ma è solo un vecchio soprannome di famiglia. Nella ridefinizione di Paul c’è innanzitutto il distacco dagli eccessi ideologici del padre Ron, che ancora non molla l’idea di abolire la Fed, e c’è il ripensamento delle istenza più isolazioniste in politica estera. Occuparsi dei fatti di casa propria è la stella polare della dottrina, ma up to a point. C’è poi la necessità di fare presa su quella che chiama la “Facebook generation”, elettorato che sta incubando, per lo più inconsciamente, un germe libertario e allo stesso tempo vuole uguaglianza e giustizia sociale. Se esiste un’area d’intersezione ideologica fra la passione per la libertà di Reagan, la rabbia antibanche di Occupy Wall Street, il disprezzo per le gabelle di Washington del Tea Party, il liberismo selvaggio della Silicon Valley e la resistenza al controllo dell’intelligence di Edward Snowden, quella è l’area dove Paul vuole combattere la sua battaglia. “Il messaggio di libertà, opportunità e giustizia è per tutti gli americani, che indossiate una giacca, un’uniforme o una tuta da lavoro, che siate bianchi o neri, ricchi o poveri. Molti americani, però, sono stati lasciati indietro. La ricompensa del lavoro sembra fuori dalla loro portata. Sotto l’egida di entrambi i partiti i poveri sono diventati più poveri e i ricchi più ricchi”.

 

[**Video_box_2**] La colpa, naturalmente, è dello stato federale, la sentina di tutti i mali che va abbattuta per “liberare il sogno americano”. Nessun incitamento alla rivoluzione armata, s’intende, soltanto un ridimensionamento radicale del sistema fiscale e un taglio delle spese con l’accetta per accorciare i tentacoli della bestia. Le proposte di budget che Paul ha presentato negli ultimi anni sono più lontane da quelle del repubblicano Paul Ryan di quanto quelle di Ryan siano da quelle di Barack Obama, tanto per rendere l’idea. Quella iniziata oggi è una corsa alla presidenza radicale e disperata, ma più smart di quanto si possa pensare.