Il premier israeliano Benjamin Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti dopo il discorso del marzo scorso (foto LaPresse)

Israele e i repubblicani alla Casa Bianca, storia di un'intesa

Antonio Donno
Da Nixon a Reagan, perché i conservatori americani preferiscono un pragmatico laissez-faire con Gerusalemme.

La storia della politica di Israele e quella degli Stati Uniti verso la questione mediorientale hanno seguito un andamento quasi parallelo, in relazione ai mutamenti politici avvenuti nei rispettivi orientamenti elettorali e, di conseguenza, negli indirizzi di governo. Fino al 1967, nelle relazioni israelo-americane, gli Stati Uniti non avevano assicurato a Israele quella garanzia di sicurezza cui lo stato ebraico anelava. Al contrario, la Guerra fredda nel medio oriente aveva spinto Washington a barcamenarsi tra gli opposti contendenti per impedire all’Unione sovietica di radicarsi a difesa del campo arabo. La guerra del 1967, tuttavia, aveva rappresentato uno spartiacque nella storia del medio oriente; pochi, però, avevano inteso quel mutamento nel segno della conservazione. Da quel momento in poi, sia in Israele sia negli Stati Uniti prevalse l’idea che la questione arabo-israeliana dovesse essere tenuta sotto controllo, perché ogni mutamento avrebbe potuto comportare un inasprimento della situazione. La non-soluzione della questione era preferibile a una soluzione che avrebbe aperto le porte a crisi ancora più gravi. Quando, infatti, nel 2000, il primo ministro israeliano Ehud Barak propose ad Arafat la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele, Arafat rifiutò e subito dopo scatenò la Seconda intifada, con una terribile scia di morti. Perché il progetto di Arafat non era quello di creare uno stato palestinese accanto a Israele, ma al posto di Israele.

 

I governi americani e quelli israeliani, dopo il 1967, hanno preferito la dura gestione dello status quo piuttosto che avventurarsi in ipotesi di soluzioni, se si eccettuano i tentativi residuali di Carter e di Clinton. Ma si trattò di episodi che non scalfivano una tendenza che si andava consolidando. A ciò ha contribuito il mutamento del clima politico nei due paesi, dove il Partito repubblicano, da una parte, e il Likud, dall’altra, hanno condiviso, di fatto, l’idea che conservare fosse meglio che cambiare, anche se, tutt’intorno, la regione mediorientale stava subendo mutamenti epocali.

 

In una conferenza stampa, subito dopo aver assunto la carica di primo ministro, Menachem Begin, rivolto ai suoi interlocutori americani, disse in maniera fin troppo chiara: “Avete usato questa espressione [‘territori occupati’] per dieci anni, ma a partire dal maggio 1977 spero che comincerete a usare l’espressione ‘territori liberati’”. Begin, con quest’affermazione, imprimeva una svolta radicale nelle relazioni tra Israele e il Partito democratico americano e la sua ala liberal, relazioni che si erano andate deteriorando nel corso degli anni, da quando la vittoria israeliana del 1967 aveva umiliato il dipartimento di stato e particolarmente il suo segretario, Dean Rusk che non sopportava la libertà d’azione di Gerusalemme nel contesto mediorientale e l’implicita pretesa del governo israeliano che gli Stati Uniti si accodassero alle decisioni dello stato ebraico. Rusk: “Noi e gli israeliani non abbiamo mai firmato un trattato di alleanza. E’ mia impressione che Israele non fosse interessato a tale trattato perché avrebbe implicato l’obbligo da parte di Israele di coordinare la sua politica con noi. Israele preferisce giocare a suo modo, aspettando che noi lo seguiamo”. Rusk aveva ragione. Perché Israele si muoveva con disinvoltura nello scenario regionale, confidando nell’appoggio americano? Che cosa spingeva Gerusalemme a superare il suo tradizionale atteggiamento di cautela e a mettere in atto senza indugi politiche relative ai territori occupati (“liberati”)? Gli ultimi governi laburisti israeliani, guidati da Golda Meir e poi da Yitzhak Rabin, prima della svolta epocale con la vittoria della destra di Begin nel 1977, anticiparono di fatto gli atteggiamenti e le politiche che saranno della destra israeliana. Ciò può apparire paradossale, se non si tiene conto di ciò che rappresentò la vittoria del 1967 per gli Stati Uniti e per Israele, cioè un radicale cambiamento del clima politico e nei rapporti tra i due paesi per quanto riguarda la gestione della regione mediorientale.

 

Questo cambiamento deve essere inteso nel senso della conservazione. I laburisti israeliani post 1967 videro nella vittoria del loro esercito la possibilità concreta di gestire la nuova apparentemente favorevole situazione sul campo come un dato di fatto stabile, alterabile soltanto per consolidare ulteriormente le posizioni di Israele. Ogni iniziativa volta a modificare lo status quo, proveniente dall’interno o dall’esterno, doveva essere evitata, anzi anticipata e bloccata. La Risoluzione 242 doveva restare lettera morta: così deve essere intesa l’opposizione di Nixon e Kissinger all’attivismo del segretario di stato Rogers, le cui proposte d’intervento nella situazione furono progressivamente emarginate, finché fu Kissinger a sostituirlo nel secondo mandato di Nixon. Da questo punto di vista, sia Meir sia Rabin non poterono che apprezzare la politica di procrastinazione di Nixon e Kissinger, una politica che avrebbe indebolito la posizione sovietica nel mondo arabo e dimostrato ai leader arabi come Nasser che la chiave per una soluzione doveva essere trovata soltanto a Washington e, secondo gli israeliani, anche a Gerusalemme. Kissinger: “Se fossimo rimasti fermi, senza lasciarci influenzare, sarebbe diventata sempre più evidente la centralità della nostra posizione”.


Un incontro alla Casa Bianca tra Reagan e Begin, nel settembre 1982


Conservare, controllare, procrastinare. Quando i repubblicani di Nixon andarono al potere, iniziò un corso politico che è durato sino ai nostri giorni, sostanzialmente non scalfito dalle presidenze democratiche di Carter e Clinton. Anzi, con gran dispetto di Carter, la pace israelo-egiziana non comportò alcuna modifica della questione israelo-palestinese e, come si è detto, le proposte di Ehud Barak, ai tempi di Clinton, provocarono solo la Seconda intifada. Una conferma del fatto che svegliare il can che dorme può essere pericoloso. Ma c’è di più. La questione non è soltanto di realpolitik, ma di visione complessiva degli interessi americani nel medio oriente. Su quest’argomento cruciale le divergenze tra democratici e repubblicani si sono rivelate nel tempo piuttosto marcate. Le presidenze repubblicane di Nixon, Reagan, dei due Bush (il secondo molto più del primo) hanno segnato una progressiva separazione tra le due visioni. I neoconservatori americani, affiliati al Partito repubblicano, consideravano il medio oriente un test case della capacità di Washington di mantenere inalterata l’egemonia americana in una regione strategicamente cruciale. E questo, durante gli anni di Nixon prima, e poi, soprattutto, durante le presidenze Reagan, quando l’Iran era stato perso. Così Reagan nella sua autobiografia: “Desideravo inviare un segnale ai nostri alleati e a Mosca che gli Stati Uniti avrebbero sostenuto i loro amici ed esercitato la loro influenza nel medio oriente al di là del sostegno a Israele”.

 

Sin dai primi approcci di Nixon e Kissinger alla questione mediorientale, perciò, i repubblicani e i neoconservatori, che ne costituivano l’ala più attiva nel campo della politica internazionale, videro nel medio oriente non un terreno di sperimentazione politica a livello di proposte per migliorarne l’assetto, come ai tempi dei democratici e dei liberal, ma al contrario di conservazione, stabilizzazione, controllo. Nixon e Reagan consideravano il medio oriente secondo il prisma della Guerra fredda e da ciò scaturiva la logica conseguenza, tipica delle dinamiche della Guerra fredda, di tendere, prima di tutto, a conservare le posizioni conquistate. Israele aveva la primaria funzione di guardiano della stabilità nella regione. Sempre Reagan nella sua autobiografia: “Israele ha energia democratica, coesione nazionale, capacità tecnologica e una fibra militare in grado di farne un alleato affidabile dell’America (…) e di mantenere una posizione di frontiera in difesa degli interessi occidentali in tema di sicurezza”.

 

La guerra del 1967, dunque, rappresentò una svolta epocale non solo per Israele, ma per la stessa politica americana verso la regione. E la vittoria dei repubblicani di Nixon fu il suggello di un cambio di visione radicale. Si prenda il caso del nucleare israeliano, fondamentale banco di prova nelle relazioni tra i due paesi. Prima di Nixon, i democratici al potere avevano operato continue pressioni su Israele perché rivelasse l’esistenza o meno del possesso dell’arma nucleare, ottenendo solo risposte evasive. Con i repubblicani, la situazione si definì in modo del tutto favorevole a Gerusalemme; fu Kissinger a chiudere la questione: poiché Israele nicchiava sul possesso o meno del nucleare, Washington non poteva che prendere atto della situazione. In un memorandum a Nixon, Kissinger raccomandava al presidente di impegnare Gerusalemme a non fare del nucleare “un fattore noto e ancor più pericoloso per la situazione delle relazioni arabo-israeliane”. Quindi, riserbo assoluto sulla questione, la questione del nucleare israeliano doveva restare un tema “deliberatamente oscuro”. Allo stesso tempo, sia per gli arabi sia per i sovietici doveva essere chiara la superiorità di Israele in campo militare. La stabilizzazione della realtà mediorientale si fondava, per i repubblicani, sulla supremazia del pivot israeliano, sull’acquiescenza dei paesi arabi “amici”, sulla marginalità della posizione sovietica, mentre nel 1972 il passaggio dell’Egitto di Sadat dalla parte occidentale segnò il trionfo di una politica repubblicana che possiamo definire di “stabilità dinamica”. Il conservatorismo repubblicano nella politica mediorientale sembrava dare frutti copiosi: il crollo del nasserismo era giunto militarmente per mano di Israele, ma il successore di Nasser, Sadat, sembrava incarnare quella visione realistica della vicenda mediorientale che gli era suggerita proprio dalla stabilità e consistenza della posizione americana nella regione. Fu proprio il coraggio di Sadat a decretare il successo della posizione conservatrice americana e, di conseguenza, di quella ferma di Israele. Sadat umiliò i sovietici, mettendoli alla porta. Così Sadat nelle sue memorie: “L’Unione sovietica non cambiò mai modo di agire nei miei confronti. Evidentemente, i suoi leader amavano vederci con le mani legate, incapaci di prendere una decisione”. La decisione di Sadat di cambiare campo non era legata soltanto alla devastante sconfitta del 1967, ma al clima politico che si era creato nel medio oriente dopo quell’evento. I repubblicani al potere a Washington avevano fatto una scelta ben precisa: sfruttare sino in fondo i preziosi esiti politici dovuti alla vittoria eclatante di Israele. Così, la cacciata dei sovietici dall’Egitto non deve essere letta soltanto come il risultato di un’autonoma decisione di Sadat, ma come la presa di coscienza del leader egiziano che la posizione del proprio paese era ormai insostenibile in uno scenario in cui la preminenza politica degli Stati Uniti e quella politico-militare di Israele erano un dato di fatto incontestabile. L’immobilismo politico di Washington era vincente.

 

[**Video_box_2**]Con Reagan la politica repubblicana verso il medio oriente si consolidò. Reagan non mostrò particolare interesse verso il contenzioso arabo-israeliano, che considerò un dato di fatto stabile nello scenario mediorientale; anzi, lo storico William B. Quandt ha scritto: “Reagan era dalla parte di Israele e Israele non aveva alcuna fretta di muoversi”. Né più, né meno. Israele era per Washington uno strategic asset e, al di là della simpatia del presidente americano per lo stato ebraico, esso era, prima di tutto, un punto fermo nella strategia dei repubblicani tesa a conservare, per quanto possibile, un medio oriente stabile.

 

Era miope la politica repubblicana? Certo, la guerra Iran-Iraq, durata dal 1980 al 1988, in piena epoca reaganiana, mostrava i segni di un medio oriente in ebollizione, e lo stesso Reagan dovette ammettere: “Nel 1988, il medio oriente era un nido di serpenti: i problemi erano molto più numerosi rispetto al momento in cui avevo disfatto le mie valigie a Washington nel 1981”. Tuttavia, è impossibile dire che un maggior attivismo americano nella regione avrebbe prodotto risultati più significativi. C’è da considerare che gli anni di Reagan hanno rappresentato, secondo gli storici, una nuova fase acuta, per quanto finale, della guerra fredda e il medio oriente costituiva, più che mai, una posizione strategicamente cruciale nel conflitto est-ovest. Anzi, il fatto che l’Unione sovietica fosse terribilmente impelagata in Afghanistan consigliava al governo repubblicano a Washington di mantenere un profilo solido, stabile, positivo nel cuore del medio oriente, accanto al fidato alleato israeliano, senza impegnarsi in progetti rischiosi per la conservazione dell’egemonia americana.

 

In conclusione, la politica repubblicana nel medio oriente si è caratterizzata, fin dai tempi di Nixon, in modo ben diverso rispetto a quella precedente dei democratici. Mentre i democratici, liberal in testa, hanno mostrato una tendenza a intervenire, ma senza successo, per modificare una realtà che presentava una molteplicità di fattori endogeni di difficile lettura per chi fosse estraneo a quel mondo, i repubblicani, più pragmaticamente, si sono accontentati di gestire, per quanto possibile, la situazione favorevole scaturita dagli esiti della guerra del 1967. Anche la gestione di George W. Bush era inizialmente intesa a conservare lo status quo mediorientale, secondo l’esperienza precedente dei governi repubblicani, ma i fatti dell’11 settembre impressero una svolta drammatica alla sua presidenza e ne mutarono radicalmente le linee guida.