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Mini identikit dell'esodo jihadista tunisino (e se inizia il controesodo?)

Paola Peduzzi
Il terrorismo c’è, arriva dall’esterno – se confini con la Libia oggi non sei al riparo dalle infiltrazioni jihadiste – e cresce internamente, se è vero come dice un report delle Nazioni Unite che quattromila combattenti nella regione, tra al Qaida e Stato islamico, arrivano dalla Tunisia.

Il risveglio dopo l’attentato di Tunisi è amaro, ricorda il sapore dello sconcerto dopo la strage di Parigi, Charlie Hebdo decimata e gli ebrei ammazzati, perché è stato messo sotto attacco un museo, perché dentro c’erano cittadini europei, certo, ma soprattutto perché Tunisi ci assomiglia. Combatte, o ci prova come noi tutti, il terrorismo sulla base di un sistema democratico, frutto di un’integrazione con l’islam lunga decenni e ora dell’unica stabilizzazione realizzatasi dopo le primavere arabe. Ma il terrorismo c’è eccome, arriva dall’esterno – se confini con la Libia oggi non sei al riparo dalle infiltrazioni jihadiste – e cresce internamente, se è vero come dice un report delle Nazioni Unite che quattromila combattenti nella regione, tra al Qaida e Stato islamico, arrivano dalla Tunisia (ne sarebbero morti anche duemila, un altro numero enorme, forse troppo).

 

Il giornale online al Monitor ha pubblicato un articolo in cui cerca di spiegare questo fenomeno, noto come “l’esodo jihadista”, in cui racconta che tutti, a Tunisi, dal professore universitario al dottore, conoscono qualcuno che è andato a combattere in Siria, e che magari ci è morto. Una ricerca fatta da alcune organizzazioni tunisine dice che questi jihadisti non sono necessariamente poveri, ma provengono dalla middle class: il 60 per cento dei reclutati parte per combattere appena prima di laurearsi. Spesso sono diventati molto religiosi poco prima di arruolarsi, fino a quel momento vivevano le loro vite di studenti normali, feste, alcol, magari qualche droga leggera (abbiamo detto che Tunisi ci assomiglia, sì?). Molti padri che hanno raccontato le storie dei loro figli partiti, alcuni ritornati e poi di nuovo arruolati, dicono che un computer – usato in modo ossessivo, però questo accade anche nel nostro placido occidente – e una moschea sono sempre stati sufficienti per il reclutamento, con i chierici pronti a usare le confessioni, il sesso con una ragazza o feste un po’ lascive, come strumento per instillare un senso di colpa espiabile soltanto con una mossa eroica, come combattere la guerra santa (le madri dicono quasi sempre che nei mesi prima della partenza il loro rapporto con i figli si allentava, non c’erano più confidenze né attenzioni, pochi incontri fugaci, a cena sempre fuori, solo un gran freddo).

 

Negli ultimi sei mesi l’esodo jihadista si è intensificato, e le misure adottate dal governo per contenerlo non sono state efficaci (per esempio è stato introdotto l’obbligo del permesso dei genitori per viaggiare in Turchia, accesso per la Siria, ma i ragazzi hanno imparato a passare il confine con la Libia e poi organizzarsi da lì. Quando anche il passaggio in Libia è stato messo sotto controllo, è iniziato il viaggio a ovest). Per molti esperti si tratta di un fenomeno post rivoluzionario che è andato consolidandosi in questi anni turbolenti, di assestamento, di tentativi democratici non sempre brillanti, che riguarda sia le zone costiere storicamente legate al regime sia quelle interne dove è florido il partito islamico Ennahda. Ma origini del fenomeno a parte, ora la domanda è: è iniziato il controesodo?

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi