Una preghiera del venerdi della comunità islamica sul marciapiede davanti la moschea in viale Jenner, a Milano (foto LaPresse)

Così crescono le nuove generazioni del terrorismo islamico in Lombardia

Cristina Giudici
Espiata la condanna in Italia per terrorismo internazionale, i più pericolosi tra i mujaheddin tunisini sono stati espulsi fra il 2007 e il 2008. E agli investigatori della Digos lombarda, allora, hanno detto una cosa sola: “Torneremo”.
Espiata la condanna in Italia per terrorismo internazionale, i più pericolosi tra i mujaheddin tunisini sono stati espulsi fra il 2007 e il 2008. E agli investigatori della Digos lombarda, allora, hanno detto una cosa sola: “Torneremo”. In Lombardia, a partire dai primi anni Novanta, sono cresciute due generazioni di combattenti islamici. Quasi tutti forgiati ideologicamente nella moschea milanese di viale Jenner, e poi andati ad addestrarsi in Afghanistan. Un gruppo di 30 jihadisti tunisini, duri come macigni, violenti e aggressivi, in parte reclutati ai margini della società, fra gli spacciatori di droga. Il caso più “edificante”  è quello di Sami Essid Ben Khemais,  punto di riferimento di al Qaida in Italia. Era lui, Khemais, alias Saber, alias al Muhajir (che significa l’emigrante ) ad avere rapporti con tutti gli uomini di al Qaida in Europa. Arrestato nel 2001, oggi è diventato il capo militare dell’organizzazione islamista Ansar al Sharia (i partigiani della sharia), fondata dallo sceicco Seifallah ben Hassine, alias Abu Iyad, nel 2011, a Tunisi. Nel 2008, quando fu scarcerato, Khemais fece persino  ricorso a un giudice a Berlino, alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, per non essere espulso dall’Italia ed evitare le prigioni tunisine. Con lui c’era, fra gli altri, Mehdi Kammoun, alias Kamel: un altro pezzo da novanta del terrorismo islamico della cellula creata a Gallarate dal “gruppo salafita per la predicazione e il combattimento”. Anche lui graziato dopo la rivoluzione dei gelsomini e confluito in Ansar al Sharia.

 

“Torneremo”, avevano detto. E non si capiva se volevano dire che alla fine saranno loro a vincere la guerra contro l’occidente o se invece la loro minaccia era da prendere alla lettera perché sarebbero tornati in Italia, come temono gli investigatori, per vendicarsi di tutti quegli anni passati nelle carceri di massima sicurezza con ex brigatisti e mafiosi. E allora bisogna guardarsi indietro e rileggere quella frase, intercettata in una camera di sicurezza della questura milanese alla fine di marzo del 2003, dopo lo smantellamento di un cellula islamista sorta fra la moschea milanese di viale Jenner e quella di Cremona. Un aspirante shahid (martire), che raccoglieva soldi e combattenti da mandare nel Kurdistan iracheno, mormorava: “Loro hanno paura di noi. Dio maledica i cani degli israeliani e anche degli italiani, che sono servi e portati al guinzaglio. Sono cani, figli di cane, maledetti, nemici di Allah. Sono dei diavoli e hanno paura. A loro piace la vita, ma io voglio essere un martire, io vivo per il jihad perché dentro questa vita non c’è nulla. La vita è dopo. La felicità è morire da martire. Allah, aiutami a essere il tuo martire. Allah, aiutami a vendicarmi”. Allora il magma in cui si muovevano i mujaheddin tunisini era quello della rete di al Qaida. Le sigle dei loro gruppi cambiavano in continuazione, seguendo l’evoluzione geopolitica dei diversi fronti di guerra. Dalla Bosnia all’Afghanistan, fino all’Iraq. Con una matrice comune: il verbo salafita. Ora invece si muovono fra la Libia e la Tunisia, sotto il vessillo dello Stato islamico per fare la guerra santa. Come quella che voleva combattere l’ex imam di Cremona, Mourad Trabelsi, una pedina minore del fondamentalismo lombardo. Girava per Cremona a piedi nudi, a bordo di una vecchia Espace su cui caricava i figli trasandati, insieme con polli e montoni, e pareva un disgraziato, ma aveva pianificato di far saltare in aria una Renault piena di esplosivo il 2 dicembre del 2002, nel ventisettesimo giorno del Ramadan (il giorno in cui si celebra la rivelazione del Corano al profeta Maometto) per colpire la cattedrale della città dei liutai. E contemporaneamente un’altra cellula tunisina aveva vagheggiato di sequestrare una macchina della polizia per riempirla di esplosivo e farla saltare in aria in piazza Duomo a Milano. La cellula venne smantellata grazie alla testimonianza di un pentito tunisino, Zouadi Chokri, un ex spacciatore, che faceva la spola fra la moschea milanese di viale Jenner e quella di Cremona. Condannato a sette anni di galera, una volta uscito dal carcere, anche Trabelsi ha cercato un giudice a Berlino per restare in Italia. Il governo italiano lo ha espulso, ma nel 2010 la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia (sic) per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea, che vieta la tortura, per via dei maltrattamenti che avrebbe potuto subire nelle galere di Ben Ali una volta rispedito in Tunisia. Il Foglio ha scoperto che l’ex imam di Cremona è tornato clandestinamente in Italia per cercare di ottenere un permesso di soggiorno con un nome falso. Una volta individuato è stato espulso nuovamente dalla Digos nel 2014. Quando venne arrestato, nel 2003, nel suo pc venne trovato un video che lo mostrava in giardino mentre sgozzava un montone. E, brandendo un coltello, strepitava: “Ai cani la carne degli infedeli”. Il suo inno di guerra divenne il titolo del libro di Roberto Fiorentini (edizioni Eurolitho) dedicato alla cellula cremonese.

 

In tutte le indagini e nelle intercettazioni ambientali (anche nelle patrie galere), i nomi che si intrecciano sono sempre gli stessi: islamisti egiziani, marocchini, e tanti, tantissimi tunisini. Come Essid Ben Khemais, apparso nel 2012 in un comizio insieme al leder di Ansar al Sharia, Abu Iyad, davanti alla bandiera nera dell’Is, in Tunisia. Quando fece ricorso alla Corte di Strasburgo, per non essere espulso dall’Italia, le autorità giudiziarie tunisine risposero così: “È opportuno, prima di tutto, ricordare che l'interessato è stato condannato in contumacia, tra l'altro per aver partecipato, nell'ambito della sua appartenenza, in quanto capo della cellula del ramo europeo della rete del gruppo terrorista al Qaida, al sostegno logistico alla rete legata al citato gruppo soprattutto attraverso il reclutamento e l'addestramento delle persone al fine di commettere atti terroristici”. Ansar al Sharia è stato fondato in Tunisia con il sostegno del ‘gruppo di Milano’. Oltre a Sami Essid Ben Khemais, evaso da un carcere militare durante la rivolta dei gelsomini, ci sono diversi islamisti tunisini che facevano riferimento alla moschea di viale Jenner o ad altri centri culturali islamici in Lombardia. “Arrestati in Italia quando erano ancora dei ragazzini”, ricordano gli investigatori. E ora diventati le nuove leve della terza generazione di mujaheddin che vogliono trasformare il proprio paese in un Califfato.

 

[**Video_box_2**]I tunisini suscitano timore e allarme. E infatti appaiono ancora nella black list diffusa dal governo americano nel gennaio scorso: 60 global terrorist cresciuti in Italia di cui oltre la metà tunisini e provenienti dalla stessa città, quella di Menzel. Alcuni ora si trovano in Libia, altri in Tunisia, ma nel 2013 ad Andria, in Puglia, è stata smantellata un’altra cellula, guidata da un giovane tunisino, Hosni Hachemi Ben Hassem, imam del centro islamico della cittadina. Gli aspiranti shahid, finiti in Puglia, andavano ad  addestrarsi sulle pendici dell’Etna. I loro punti di riferimento politici erano i membri del gruppo tunisino combattente confluito in Ansar al Sharia in Tunisia, fra cui Essid Ben Khemais. Nel 2013 sono stati espulsi dall’Italia altri 36 islamisti tunisini. “Torneremo”, avevano detto, ma forse non se ne sono mai andati.