Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve (LaPresse)

Editoriali

La Fed mette il dito negli occhi all'Europa. Nord vs sud

Redazione

Perché l’inflazione che galoppa è una doppia sfida per l’Ue  

Alla fine Jerome Powell lo ha detto, mettendo fine a un’èra o a un’illusione: quella del controllo concertato sui prezzi delle banche centrali, come un tempo si faceva nel resort di Jackson Hole, Wyoming. Già, perché se il presidente della Federal Reserve ha ammesso di essersi sbagliato sull’inflazione, “che non è temporanea da rialzo dell’energia, carenza di materie prime, aumento dei consumi post Covid, pressioni dei salari; anzi va mandato in pensione il termine transitorio e concludere gli acquisti di asset prima del previsto”, una parte del mondo, l’Europa, finora l’ha pensata diversamente – “È una fiammata che si esaurirà nel 2022” ripete la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde – e un’altra parte, l’oriente, è alle prese con il fenomeno opposto dell’inflazione zero. Dunque? Powell, che per tutta l’estate ha tergiversato in attesa di riconferma, nella retromarcia non ha indicato quali possano essere le cause di un’inflazione non temporanea.

 

E in assenza di analisi adeguate, magari di carattere non statistico ma comportamentale, inadeguati sono gli strumenti. In realtà ciò che la Fed vuol fare è per ora lo stop agli acquisti di titoli pubblici, che a loro volta aiutano il piano di Joe Biden di sostegno a imprese e famiglie. Non parla di tassi d’interesse, che resteranno tra zero e 0,25; tre quarti di punto sopra quelli dell’euro. Il che ha comunque già creato un’altra frattura con l’Europa, con il dollaro che dal 2020 si è rafforzato del 20 per cento, a danno dell’export Usa. Ma neppure da questa parte dell’Atlantico le idee e l’evidenza dei fatti sembrano chiare. Luis de Guindos, vicepresidente spagnolo della Bce, dice che “i fattori alla base degli alti prezzi non dureranno e dovremmo vederli svanire nel 2022, ma abbiamo sottovalutato l’inflazione nel 2021. Dunque le prospettive non sono certe”. La Bce ha in corso un piano di acquisti meno massiccio della Fed che dovrebbe durare per altri 12 mesi; l’altra differenza sono i tassi sottozero che risalgono all’èra pre Covid di Mario Draghi. Forse vale la pena di soffermarsi su questo punto: i tassi a meno 0,5 della Bce non hanno impedito prima del 2020 un’inflazione rasoterra: l’1,3 per cento misurata nell’eurozona a dicembre 2019. Questo sembra far dipendere l’inflazione più che dalle politiche monetarie accomodanti dallo scarno andamento dell’economia, anzi delle varie economie dell’Europa. Invece quelle politiche monetarie accomodanti hanno aiutano i governi a contenere i loro debiti senza che questo, evidentemente, si sia trasferito alla crescita e dunque a una “sana” inflazione.

 

Poi c’è appunto l’oriente. I due soli paesi ad alta inflazione sono Sri Lanka e Pakistan. La Cina viaggia all’1,5, il Giappone intorno allo zero. Entrambi con politiche governative e monetarie espansive. Tutti alle prese con il post Covid e relative conseguenze. Ma neppure in Europa la situazione è omogenea. Nell’Eurozona è al 4,9 per cento (il 4,1 a ottobre). In Italia al 3,8. In Francia 3,4. In Finlandia e Grecia 2,8. In Olanda 5,6. In Spagna 5,8. In Germania 6. Ovunque la spinta maggiore è dell’energia, in Italia per il 30,7 e nell’Eurozona del 27,4: depurato, il rialzo dei prezzi sarebbe del tre nell’Eurozona e del 2,6 in Italia: un quadro compatibile con il rilancio post pandemia. Più che dire se ha ragione la Fed o la Bce sarebbe magari il caso di dichiarare conclusa l’èra del multilateralismo delle banche centrali e quella del controllo dei prezzi come primo loro obiettivo. L’altro, svalutazioni e rivalutazione delle monete, non è più politicamente sostenibile. Neppure errori come quello di Jean-Claude Trichet che nel 2008 aumentò i tassi della Bce due mesi prima del fallimento di Lehman Brothers contribuendo a mettere l’Europa in guai maggiori degli Usa, sono però sostenibili. Il Covid ha mostrato con ogni evidenza che servono nuove ricette e nuovi strumenti di analisi: il cui obiettivo comune siano il sostegno alle politiche economiche, purché queste non siano basate sull’assistenza e lo spreco.

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