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Editori che avanzano

Enrico Marchi spiega perché vuole comprare la Stampa: “Il giornale è in vendita, la sua storia no”. Intervista

Stefano Cingolani

"L’informazione è l’infrastruttura di una società libera”, dice l'imprenditore, che nel nord-est è sempre più un riferimento. Con la media company Nem ha già comprato 6 testate locali del gruppo Gedi, la prossima potrebbe essere il quotidiano torinese. "La storia della Stampa esprime una cultura liberal democratica e cattolica che è l’impronta e la cultura dei nostri giornali"

"Mi sono iscritto da giovane al partito liberale quando si diceva che i liberali tenevano i loro congressi nelle cabine telefoniche. E io ho aderito pensando: se tutti facessero come me non saremmo più quattro gatti”. Enrico Marchi giunto ormai alla soglia dei 70 anni, con alle spalle oltre quattro decenni di esperienze innovative e una passione mai spenta per la politica, sta sempre più diventando l’imprenditore di riferimento nel nord-est, con finanza, aeroporti e giornali.

Come si tengono insieme? “Sono tre infrastrutture, sì anche l’informazione; è l’infrastruttura di una società libera”. Ha sempre voluto remare contro corrente nel suo modo aperto, pragmatico, accattivante, tenace. Ha fondato una banca d’affari, quando qui non ne esistevano, con forti radici locali e una proiezione molto più ampia. “Si chiama Finanziaria internazionale non per caso”, dice al Foglio, anche se ha impiegato davvero molto per portarla fuori dai confini, passo dopo passo, ma senza arretrare, dimostrando di saper fare quel che tanti altri dicevano che non si poteva. E’ accaduto anche con l’aeroporto di Venezia quando tutti si opponevano all’idea che dovesse aprirsi al mondo, troppi rischi, troppi soldi, andava bene così, meglio non cambiare il solito tran tran. Oggi invece collega oltre 100 destinazioni di cui 13 intercontinentali ed è diventato uno dei tre aeroporti italiani intercontinentali. Sta succedendo con i giornali, prima quelli del Triveneto messi in vendita dalla Gedi, ora con la Stampa. Nem è stata coinvolta da Gedi e senza dubbio gli ha fatto piacere. 

 

Era il riconoscimento che la squadra di Nem, la società fondata insieme a una cordata di imprenditori e che comprende sei testate (Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso, La Nuova di Venezia e Mestre, Il Corriere delle Alpi, Il Messaggero Veneto, Il Piccolo di Trieste) aveva fatto bene.

Le trattative per il quotidiano della famiglia Agnelli sono in corso, nel bel mezzo di una forte tensione con i giornalisti allarmati per il futuro del loro lavoro. “Penso che la prima condizione per garantire libertà e indipendenza sia di essere autosufficienti e non dipendere da chi ogni anno deve coprire le perdite”. E la seconda? “E’ collegata strettamente alla prima, io credo nella stampa perché una democrazia senza una informazione libera non può vivere. Tanto meno oggi. Molti si chiedono se sia meglio una autocrazia illuminata. Il problema è che il più delle volte si spegne la luce”. Marchi tiene a sottolineare che “la storia della Stampa esprime una cultura liberal democratica e cattolica che è l’impronta e la cultura dei nostri giornali. E questa non è in vendita”. Nel caso della Nem “non siamo di fronte a un padrone che si compra un giornale, si tratta di una pluralità di soci con una sensibilità e una passione civile, avendo in mente il ruolo sociale dell’imprenditore. Ma per il futuro dell’informazione un tema fondamentale sarà capire come la politica salvaguarda e interagisce, perché qualche forma di protezione è necessaria, non va certo bene che i giornali raccolgano le notizie e qualcun altro le diffonda senza pagarle”.

Quando ha deciso di gettare le basi di una media company, Marchi non pensava di allargarsi tanto. Nem è l’acronimo di Nord est Multimedia e nasce dall’esigenza di “dare al nostro territorio una voce unica sui temi fondamentali, un territorio sotto-rappresentato rispetto alla sua importanza non solo economica”. Via via sono venute a mancare personalità di spessore nazionale, il Triveneto è rimasto in un certo senso chiuso in se stesso, quasi senza voce, per questo ha un peso inferiore alla forza del suo territorio. Si discute di autonomia e l’opinione pubblica veneta è informata da un gruppo editoriale romano e da uno piemontese. Se va in porto l’acquisto della Stampa si crea un polo dell’informazione settentrionale che va dall’est all’ovest, un polo destinato ad avere ancor più risonanza e impatto nazionale. Il vecchio Agnelli soleva dire che l’importante per lui era che la Stampa ogni mattina alle sette arrivasse sul tavolo del capo del governo (prima Giolitti poi Mussolini). In sostanza, doveva influenzare l’agenda politica nazionale. Marchi da imprenditore con la passione della politica, gli darebbe ragione. “Le notizie si trovano ovunque – sottolinea – le analisi, gli approfondimenti, le idee solo un giornale può offrirle ai suoi lettori, in qualsiasi forma disponibile”. Non solo digitale, perché le edicole debbono restare aperte, anche con qualche aiuto pubblico se necessario. Non è d’accordo, invece, con il vecchio Rizzoli secondo il quale un settimanale ti fa piangere ogni settimana perché perde soldi ogni sette giorni, un quotidiano ti fa piangere ogni mattina. E’ convinto al contrario che si possa gestire bene un’impresa dei media, la Nem chiude in pareggio per il secondo anno, ma la stessa Rcs è stata raddrizzata da Urbano Cairo. Insomma conti a posto, pluralismo e indipendenza sono il triangolo giusto per realizzare il quale ci vuole un editore che pensi a fare bene il suo mestiere.

E’ il predellino per un ingresso in politica? Marchi risponde come il vecchio Raffaele Mattioli: “Nella mia banca faccio politica ogni giorno”. Ha visto la politique politicienne da vicino quando era giovane, poi ha fondato la sua banca e anno dopo anno si è dato un progetto di lungo termine. “Non credo al profitto come fine in sé, credo invece nei progetti, l’utile è una conseguenza non un obiettivo”. Il primo obiettivo è mettere insieme le molte forze di questo territorio che sono deboli perché frantumate. Lo stesso panorama del credito è stato scompaginato negli ultimi anni. Un tempo l’azionariato di Intesa era qui nel Veneto, “oggi siamo portatori d’acqua”. Marchi segue con attenzione la battaglia per il controllo della Assicurazioni Generali, chiamate il portafoglio degli italiani non solo dei veneti. “Sono un patrimonio del paese – dice al Foglio – e debbono rimanere tali”.

La strategia delle infrastrutture che nasce da una banca d’affari che non fa affari con la “turbofinanza”, ma investendo nella economia reale, si allarga dagli aeroporti alle autostrade, dalle aziende municipali alle fiere, sempre con lo stesso progetto: mettere insieme risorse locali troppo disperse, dar vita a soggetti imprenditoriali solidi e nello stesso tempo influenti a livello nazionale. “Prendiamo le autostrade. Oggi abbiamo l’asse nord-sud in mano all’Aspi controllata dalla Cassa depositi e prestiti, a ovest c’è il gruppo Gavio, a est la frammentazione. Nelle utilities mettendo insieme tutte quelle del Nord est non si raggiunge l’emiliana Hera e tanto meno la lombarda A2A. Le fiere sono superate da quelle di altre regioni. In un mondo nel quale si sfidano dei colossi qui ciascuno è alle prese con il proprio particolare”. Oggi manca in Italia un grande asset management per le infrastrutture, abbiamo lasciato campo aperto ai fondi internazionali, come nelle autostrade o nelle telecomunicazioni. Esiste solo F2i che dispone di appena 8 miliardi di euro di asset under management. Anche di questo vuole occuparsi la Finint. Un nuovo progetto riguarda poi la sanità. “Credo nella collaborazione tra pubblico e privato, e credo sarebbe utile una istituzionalizzazione della sanità privata, sotto un rigido controllo pubblico”. Più in generale, “lo stato deve essere controllore non imprenditore, deve dare le regole e assicurare la cornice nella quale l’imprenditore privato deve operare. Non deve gestire le aziende o entrare a pie’ pari nella loro governance”. Dalla sua banca, dunque, sono nate per gemmazione le iniziative infrastrutturali e altre ne nasceranno.

Marchi vuol essere un unificatore sull’esempio degli aeroporti oppure dei giornali, senza far calare dei mastodonti dall’esterno, mettendo insieme in modo sistemico quel che c’è, ma oggi è disperso e per questo indebolito, facile preda di appetiti robusti. Anche se nega qualsiasi tentazione di candidarsi, i suoi progetti hanno un indubbio peso politico. Ha apprezzato il lavoro fatto da Luca Zaia, ora considera con attenzione i progetti del suo successore il giovane Alberto Stefani, come ad esempio quello di una holding autostradale del nord-est. E del governo Meloni che cosa pensa? “La stabilità è un fattore positivo e la discesa dello spread lo dimostra”. Durerà? Marchi alza gli occhi al cielo: “E’ comunque un valore – risponde – ma quel che più mi preoccupa da europeista convinto, è il declino dell’Europa”. Ricorda quando Giovanni Malagodi diceva ai giovani liberali di imparare a memoria l’autobiografia di Jean Monnet. Oggi l’Europa “annaspa e non riesce a stare al passo delle più grandi aree del mondo”. E non è solo una questione economica. “Non si può andare avanti con politiche nazionalistiche, che cosa può fare un piccolo stato nazionale a confronto di colossi come la Cina, l’India, gli Stati Uniti?”. Il passo avanti più importante, forse decisivo, è la difesa europea. Di fronte alle sfide odierne è oggi la conditio sine qua non se vogliamo una Europa più forte e più unita. Altro punto essenziale è il bilancio europeo, ma qui occorre mettere in campo un controllo delle spese. “Dobbiamo dire quali economie realizzare, invece di chiedere soldi. Vorrei a Bruxelles uno zero base budget come avviene nelle imprese”. Il terzo impaccio è la burocrazia, si sente ripetere come un mantra che ci vuole meno burocrazia, ma nessuno poi fa nulla di concreto, al contrario. Ci vorrebbero più politici veri e di peso, e meno burocrati. Un cambiamento fondamentale riguarda il sistema di voto. “In democrazia si decide a maggioranza. L’unanimità è per altri sistemi non democratici. Difendere il potere di veto o meglio di ricatto anche del più piccolo paese significa paralizzare ogni decisione”.

Peccato che non voglia scendere direttamente in campo. Marchi è convinto che in Italia la borghesia abbia sbagliato a considerare la politica una cosa sporca e a non mettersi in gioco direttamente; ciò ha indebolito la borghesia se si guarda ad altri paesi, anche europei, e ha indebolito la politica. Ma preferisce agire puntando sui contenuti non sulle formule o sugli schieramenti. “Un liberale non crede nella società perfetta, ma si sforza comunque ogni giorno di correggere almeno qualche imperfezione”. Così vede il suo ruolo. Si è occupato di tutto nella sua Finint, poi sono entrati due figli: una delle sue tre femmine e il maschio al quale dice sorridendo di aver lasciato la soluzione dei problemi che prima s’accumulavano sul suo desk. “Li ho lasciati liberi, non è stata una scelta dinastica la mia”, precisa. Una scelta comunque che affida alla famiglia un ruolo centrale insieme a un management qualificato e di grande esperienza. Se i Sella hanno trasmesso la loro banca per generazioni, si può sperare. Marchi sorride, ma quel che gli sta a cuore innanzitutto è far uscire il suo Triveneto dalla nicchia appartata, per quanto ricca o eccellente possa essere, oscurata dall’ombra dei suoi campanili. Lo storico Carlo Maria Cipolla diceva che sotto quei campanili l’Italia è stata pur sempre in grado di offrire cose belle che piacciano al mondo. Ma non aveva ancora visto questo sisma multiplo che scuote ogni vecchia certezza.

 

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