La sinistra progressista che non vede il progresso neanche nelle autostrade

Ubaldo Casotto

Dall’Autosole al Mose: ogni sviluppo è sempre “inutile”. Nonostante la storia abbia dimostrato il contrario

L’apostolo Giacomo pensava sicuramente ad altro, ma il suo famoso “la fede senza le opere è morta”, adattato con un po’ di irriverenza in “la politica senza le (grandi) opere è morta”, aiuta a capire la povertà di proposta politica di una sinistra – non tutta, va detto – in difficoltà ideologica con la realizzazione di grandi infrastrutture. Difficoltà che la mette nella paradossale situazione di un’area sedicente progressista che non sa vedere il progresso e lo sviluppo a cui queste opere aprono la strada. L’ultimo caso è quello del Ponte sullo Stretto di Messina. Ma si tratta, appunto, solo dell’ultima puntata di una serie di occasioni mancate. La prima risale alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Anno 1959, così scrive l’Unità, organo del Partito comunista italiano: “L’autostrada del Sole rischia di trasformarsi in un elemento disorganizzatore di tante comunità locali arrecante alla collettività danni forse più ingenti degli stessi benefici”. E negli anni 1961-’62 chiedeva ripetutamente, in alternativa alle autostrade, la costruzione di scuole e ospedali.

 

Affidata all’Iri il 14 aprile 1956, l’autostrada Milano-Napoli (800 chilometri) venne realizzata in soli otto anni e inaugurata il 4 ottobre 1964, Per capire l’eccezionalità dell’impresa basti sapere che La Variante di Valico tra Bologna e Firenze (32 chilometri) è stata realizzata in trentatré anni (il primo progetto è del 1982 e la fine dei lavori del 2015), di cui ventiquattro per permessi e autorizzazioni.

  

Ebbene, il 4 aprile 1964 l’Unità scrisse in prima pagina titolava: “La spina dorsale di un sistema rachitico”, “Una visione soltanto automobilistica”, “L’Italia più corta?”. E scriveva: “L’Autostrada del Sole? Non sappiamo bene a cosa serva, non esiste uno studio serio e completo sulle conseguenze che il colossale nastro stradale avrà sull’economia del paese, non sono state calcolate le conseguenze del permanere di un sistema di viabilità ordinaria assolutamente rachitico attorno alla fettuccia autostradale". Al Pci di allora pareva insomma “evidente l’impegno di spremere l’economia nazionale nella direzione di una motorizzazione individuale forzata” mentre “i problemi dello sviluppo industriale, della viabilità ordinaria, dell’urbanizzazione, delle campagne, sono stati tranquillamente ignorati”. Per essere chiari: “La contraddizione è palese. Si procede fra stridenti assurdi, riempiendo gli occhi di autostrade e dimenticando che mancano le strade normali in città e nel resto del paese. Velocità alte e comode, insomma. Soltanto per i redditi più elevati”.

    

Vista l’autostrada all’opera, si saranno ricreduti? Macché. Il contagio si era diffuso e con esso le disgrazie annesse. Tre anni dopo, nel 1967, l’Unità, insisteva: “Rete autostradale sempre più fitta in Italia”, “Un enorme pompaggio di risorse finanziarie sottratte ad altri investimenti”. Svolgimento: “La trama delle autostrade ha compiuto certamente un grosso balzo avanti nel corso del ’67. Migliaia di miliardi sottratti ad altre spese per servizi pubblici hanno fatto il miracolo. Tuttavia malgrado le nuove realizzazioni sia per quanto riguarda svincoli che tangenziali, gli ingorghi sulle autostrade si sono verificati puntualmente anche quest'anno, dando luogo a una catena luttuosa di incidenti”. Che è come dire che gli stadi, lungi dall’ospitare giocatori e spettatori, generano una lunga e dolorosa serie di infortuni.

 

Torniamo un attimo alla Variante di Valico: perché, se la prima idea è del 1982, si è dovuto aspettare tanto per dare avvio ai lavori? Perché nel 1975, dopo la sconfitta della Democrazia cristiana alle elezioni amministrative, il Pci presentò un emendamento nel corso della discussione della Legge Bucalossi sull’uso del suolo col quale si bloccava per legge la costruzione di nuove autostrade. Questa norma verrà soppressa dal governo Amato soltanto nel 2001.

 

Non paga, l’Unità tornava a battere il chiodo l’8 gennaio 1977: “Gli investimenti in autostrade hanno aperto una falla difficilmente colmabile nelle risorse del paese, a detrimento di investimenti la cui mancanza determina continui danni economici ed ecologici”. E quindi occorreva: “Mettere fine agli sperperi in una ragnatela di autostrade, dando rigorosa precedenza a investimenti sociali e produttivi: ecco il nostro impegno”. Come se non fosse storia documentata che dalle grandi opere nascono poi le piccole opere, e che il motore della compartecipazione agli investimenti del più ampio numero di settori produttivi crea sviluppo economico. Anche immateriale, come, ad esempio, una cultura di programmazione e pianificazione fatta di norme, responsabilità, partecipazione alla decisione, condivisione delle responsabilità.

 

L’avversione alle autostrade (tenace anche quella contro l’A14, l’Autostrada Adriatica, considerata un’opera costosa che avrebbe favorito il cemento e l’urbanizzazione, danneggiando l’agricoltura e l’ambiente) in fondo non era altro che ecologismo ante litteram. Comprensibile. Gomma e asfalto inquinano, buttiamoci sul ferro. Certo, ma con molta prudenza perché – questa non la dice san Giacomo – “chi va piano va sano e va lontano” e poi la velocità era un mito di quei fascistoni dei futuristi. Di qui l’opposizione, anche se meno tetragona e unitaria, all’Alta velocità. Anche se c’è da registrare un precedente, a proposito di trasporto su ferro, perché c’è rotaia e rotaia: nel Dopoguerra la sinistra milanese si batté a lungo contro la metropolitana sostenendo che sottoterra avrebbero viaggiato i ricchi, mentre bisognava puntare sul tram, mezzo di trasporto più adatto agli operai. Insomma, come canterebbe Giorgio Gaber: la metro era di destra, il tram di sinistra. Così come la rotaia accettabile è quella del trasporto locale per i pendolari, quella che permette di viaggiare a oltre duecentocinquanta chilometri orari è eticamente inaccettabile. Spunta qui il retaggio di un’eredità lasciata alla sinistra post comunista dal più celebre segretario del Pci, Enrico Berlinguer, il quale non vedeva nelle politiche di austerità le necessarie e responsabili scelte di politica economica che prendevano realisticamente atto delle condizioni interne e internazionali in cui versava l’Italia degli anni Settanta del secolo scorso, ma piuttosto, come disse: “L’austerità è il mezzo per contrastare alla radice, e per porre le basi, del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale. Lo scopo di questa austerità è in primo luogo quello di instaurare una moralità nuova”.

  

E comunque, il movimento No Tav – ripetuto che molti esponenti del Pds e poi Pd erano e sono invece favorevoli e che ai più accesi oppositori del tunnel l’essere No Tav è costata l’espulsione dal partito (anche se bisognerebbe chiedere all’ex senatore del Pd Stefano Esposito se le sue disavventure giudiziarie, dalle quali è stato interamente prosciolto dopo una gogna durata sette anni, non abbiano origine forse nel suo convinto sostegno della Torino-Lione) –, il movimento No Tav, dicevo, trova a sinistra i suoi numi tutelari. Dal leader di Sinistra ecologia e libertà Nichi Vendola, al piddino Michele Emiliano, alla senatrice Pd Laura Puppato, all’allora segretario della Fiom Maurizio Landini, al ministro della Solidarietà sociale del Governo Prodi, il rifondarolo Paolo Ferrero, che dichiarava “che la Tav era del tutto inutile”. Spingendosi più a sinistra, lo scrittore Erri De Luca, giustificando violenze e attacchi ai cantieri della Val di Susa, diceva che “la Tav va sabotata”, perché non è frutto di “una decisione politica ma delle banche e di coloro che devono lucrare a danno della vita e della salute di un’intera valle”.

  

Elly Schlein in merito nicchia. Nel dicembre 2018 al Parlamento europeo votò a favore di un emendamento presentato dal Movimento 5 stelle per togliere la Torino-Lione dalle reti di trasporto trans-europee e di conseguenza dai finanziamenti della Ue. Arrivata al Nazareno portò in direzione nazionale Marco Boschini, attivista emiliano, per il quale la Tav è “un’opera inutile”. Siede ancora lì senza che sia mai giunta smentita da parte della segretaria. Questo giornale in una conferenza stampa, visto alcuni esponenti piemontesi del Pd erano preoccupati dal possibile cambio di linea sulla Tav, le chiese se garantiva che i dem sarebbero restati saldamente a favore dell’opera, ed ebbe come risposta un enigmatico: “Prima dovrei sapere chi sono questi esponenti”. (Vuol forse dire che una presa di posizione ha valore non in base al suo contenuto ma a seconda di chi la pronuncia, come pare succeda per la riforma sulla separazione delle carriere dei giudici e sul sorteggio per la formazione del Csm? Boh?).

  

Infine, il Mose. Se il verde Gianfranco Bettin, già assessore all’Ambiente di Venezia, rivendica nonostante tutto la sua battaglia: “Il Mose è un’opera del Ventesimo secolo che non risolve le questioni del Ventunesimo secolo. Pensato per chiuderlo tre volte l’anno, verrà chiuso decine di volte con il rischio di fare fuori il porto e la pesca, pilastri dell’economia veneziana”. Altri, riconoscono la sconfitta: “Abbiamo perso. Però il giorno che inaugureranno il sistema Mose scoprirò una lapide dove si leggerà ‘Queste opere sono state realizzate contro la volontà del sindaco di Venezia’”. Firmato Massimo Cacciari. La lapide non c’è. Il Mose sì.

Forse aveva ragione Berlinguer, forse è una questione morale: la capacità di aderire con la volontà a ciò che la realtà mostra come evidentemente positivo.

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