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Il Colloquio

L'accordo Ue-Mercosur non è solo commercio. Ecco il valore geopolitico

Davide Mattone

Dopo venticinque anni di negoziati, l’intesa supera i soli fini commerciali e diventa un “pilastro politico” per l’Europa. Diversificare mercati, alzare standard ambientali e contendere all’influenza cinese lo spazio latinoamericano. Con un ruolo chiave dell'Italia
 

Nel dibattito sull’accordo Eu-Mercosur ci si ostina a contare dazi e quote, dimenticandoci che l’accordo - se e quando sarà ratificato - offre all’Europa una piattaforma per fare geopolitica con strumenti multilaterali in un mondo di potenze determinate a imporre i propri interessi. Lo studio richiesto dalla Commissione affari esteri (Afet) del Parlamento europeo e firmato dagli accademici Andrés Malamud e Luis Schenoni chiama questo tassello “pilastro politico”: non la fine del percorso, ma la cornice dentro cui cercare di rilanciarsi, senza vendere illusioni. È con questo spirito che Malamud, politologo all’Università di Lisbona e autore dello studio, ha parlato al Foglio.

Negli ultimi venticinque anni, da quando sono iniziati i negoziati dell’accordo Ue-Mercosur, presentato dalla Commissione europea lo scorso 3 settembre, abbiamo visto alleati e nemici scambiarsi di posto. Siamo passati da un ordine che si pretendeva basato su regole al diritto del più forte. Oggi la politica internazionale è tornata a essere un esercizio di potere: ineffabile, ma percepibile. Dove accordi, trattative e intese servono almeno a fare in modo che il prossimo tradimento non arrivi dal vicino di casa.

“Tre mesi fa l’accordo aveva un peso del tutto diverso” dice Malamud, con l’obiettivo europeo di colmare la perdita di quota di mercato causata dalla minaccia dei dazi dell’amministrazione Trump. L’Ue, sostiene il politologo, ha vissuto non tanto una “sindrome dell’abbandono” quanto un tradimento percepito: dopo una fase di frizione con Washington, si è riallineata praticando un “bandwagoning”, termine usato dagli accademici per descrivere letteralmente “salire sul carro”, accettando condizioni esterne pur di restare agganciata al carro del leader. In questo quadro, per Malamud l’intesa con il Mercosur non fa nascere un blocco unico, e nemmeno commerciale: il Mercosur non è una vera unione doganale e basta attraversare il confine uruguaiano con più di 1.500 dollari ed essere obbligati a dichiararli per misurare la distanza fra promessa e realtà.

Per spiegare perché ci siano voluti venticinque anni, Malamud definisce i “motori” e i “freni”dell’accordo. I motori sono due: commerciale e geopolitico. Il commercio è il motore trainante, capace di smuovere filiere e investimenti. L’ambizione geopolitica è quella di poter contare un po’ di più, mentre l’Europa stessa è tradita dalla sua demografia, e l’America Latina resta periferica. Anche i freni sono due: l’ambiente come condizionalità non depennabile, poi l’agroalimentare. Dal 2019 al dicembre 2024 la negoziazione ha accelerato grazie al fatto che i paesi sudamericani hanno accettato l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici come condizionalità, accanto a democrazia e diritti umani. Se un membro del Mercosur non rispetta Parigi, l’Ue può sospenderne i benefici: un’ancora che Lula ha reso politicamente praticabile con una sensibilità ambientale opposta a quella di Bolsonaro, e con Marina Silva, ambientalista, attualmente al ministero competente. Eppure proprio quelle condizionalità, inserite nell’accordo, sono una cintura di sicurezza: Malamud le descrive come l’Ulisse legato all’albero maestro per non cedere alle sirene. Il Mercosur accetta di farsi vincolare a Parigi. Ma ciò che davvero interessa ai partner sudamericani, soprattutto all’Argentina, è integrare il know-how europeo nelle proprie catene industriali: standard, capitale tecnico, macchine e competenze che li rendano più competitivi.

Ecco appunto il nodo dell’agroalimentare, che per Malamud non è solo economico ma identitario: per un quarto di secolo si è lavorato prima a rassicurare l’Ue sul lato ambientale, poi a misurare quote di carne. L’esperto ci presenta l’equazione del negoziato “carne bovina per macchine” per far capire chi vince e chi teme di perdere: la Germania, che esporta macchine e componenti industriali, mentre la Francia difende l’agroalimentare. Da qui la contraddizione del presidente francese Emmanuel Macron, liberale e multilaterale ma, all’atto politico, interprete del fronte protezionista. All’opposto, la premier Giorgia Meloni, conservatrice, ha sostenuto l’intesa pur a dispetto delle resistenze del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Secondo Malamud, il rapporto stretto tra il presidente dell’Argentina Javier Milei e Meloni, e la visione geopolitica di quest’ultima, hanno fatto la differenza: l’Italia è stata l’ago della bilancia, come previsto dal ministro degli Affari esteri portoghese Rangel, riferisce Malamud, e ha sbloccato un dossier nello stesso momento in cui, come non accadeva da anni, tutti e quattro i membri storici del Mercosur sono oggi favorevoli. 

La sequenza degli eventi degli ultimi mesi aiuta a leggere il significato geopolitico dell’intesa. A dicembre 2024 la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen vola in Sudamerica e spinge per la firma dell’accordo, giocando d’anticipo sull’amministrazione Trump. La Commissione, da sempre favorevole, scommette sull’appoggio italiano e prova a mettere la Francia di fronte al fatto compiuto. È la riaffermazione del ruolo istituzionale europeo come architetto e ingegnere di infrastrutture di mercato, in un mondo dove la forza pura è tornata regola per gli equilibri politici e commerciali. 

Naturalmente, la competizione con la Cina è il banco di prova. I paesi del Mercosur, ricorda Malamud, vendono al miglior offerente, non al miglior amico. Pechino è oggi il principale partner della regione nel commercio di beni, con flussi che finora hanno doppiato quelli europei. Argentina, Bolivia e Uruguay hanno siglato un memorandum sulla Belt and Road, uno dei principali programmi di investimenti cinesi, che porta con sé progetti imponenti: dal litio a infrastrutture portuali e satellitari. Mentre l’Ue promette 1,8 miliardi di euro con la strategia Global Gateway, la Cina ha messo sul piatto cifre molto più consistenti, come i 4,8 miliardi di dollari annunciati solo in Brasile nel maggio 2025.

Quali effetti geopolitici, dunque, aspettarsi? Non un’alleanza militare, non un ombrello di sicurezza, non un blocco granitico destinato a espandersi e integrarsi in maniera illimitata. Piuttosto, un patto di cooperazione che rafforza l’economia europea e latinoamericana, diversifica fornitori e mercati, alza l’asticella degli standard ambientali e industriali sudamericani, e costruisce legami capaci di resistere alle oscillazioni del momento. È uno strumento, chiaramente non paretiano, utile se usato con realismo: compensando (internamente) chi perde, dove si può, e tenendo il punto sulle regole non per moralismo, ma per fare politica estera.

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