
missione compiuta
Il ruolo di Fitto nella gran piroetta di Meloni & Co. sul Mercosur
Il vicepresidente della Commissione Ue, che votò a favore del Ceta e del Ttip, è sempre stato favorevole agli accordi di libero scambio. Stavolta il suo compito era ottenere qualche concessione per gli agricoltori, per giustificare il cambio di posizione del governo italiano
Il primo esponente di FdI a parlare è stato Raffaele Fitto, ma nelle vesti di vicepresidente della Commissione europea: “L’accordo Ue-Mercosur non rappresenta soltanto un capitolo di politica commerciale: è una scelta strategica, politica ed economica per rafforzare il ruolo dell’Europa nel mondo”. È, in un certo senso, anche il timbro politico del governo italiano, sebbene Palazzo Chigi in una nota lasci ancora aperta la “possibilità di sostenere o meno l’approvazione finale” dell’accordo commerciale con il blocco dei paesi sudamericani (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay). Ma alla fine Meloni non potrà smentire il suo uomo più importante in Europa. D’altronde da tempo il governo ha avviato una lenta manovra di passaggio dal no al sì al trattato, che necessita di tempo e di nuove concessioni e “salvaguardie aggiuntive a tutela degli agricoltori europei”.
Fitto, invece, non ha bisogno di giustificare cambi di opinione. Sul commercio internazionale e sulla necessità per l’Italia di aprire nuovi mercati, l’ex ministro per gli Affari europei del governo Meloni è stato sempre coerente, anche quando queste posizioni a destra non erano popolari. Nel febbraio del 2017, l'allora vicepresidente del gruppo Ecr al Parlamento europeo votò a favore del Ceta, il trattato di libero scambio con il Canada, attirandosi a lungo gli insulti sui social del mondo sovranista. E due anni prima aveva votato a favore del Ttip, l’accordo che avrebbe abbattuto quasi tutti i dazi con gli Stati Uniti, un’occasione persa se si pensa alle relazioni commerciali transatlantiche dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca. “Il centrodestra non può essere contro il mercato e contro il commercio internazionale. Sarebbe un boomerang per le nostre stesse imprese” dichiarò Fitto votando l’accordo con il Canada.
In realtà, nel centrodestra dell’epoca le posizioni erano opposte: il no ai trattati di libero commercio – dal Ttip con gli Usa all’Epa con il Giappone – era totale. Idem per il Ceta. Meloni lo definiva “una porcata contro i bisogni dei popoli” e che “massacra il Made in Italy”. Ma le cose sono andate diversamente: nei primi cinque anni di applicazione, l’export italiano in Canada è aumentato del 36% (più del doppio rispetto all’export verso altri paesi extra Ue). E ora nessuno più fra i tanti acerrimi oppositori del Ceta – tra di essi c’era anche Elly Schlein, all’epoca europarlamentare del Pd che votò contro – chiede di stracciarlo. Lo stesso Francesco Lollobrigida, che ha espresso al massimo il sovranismo coldirettista della destra, una volta diventato ministro dell’Agricoltura si è ricreduto sul Ceta e ne ha elogiato l’impatto positivo per i produttori italiani. Anche la fallita strategia “zero per zero” tentata nel negoziato con Trump da Ursula von der Leyen, e sostenuta da Giorgia Meloni, non è altro che una riedizione fuori tempo massimo della filosofia di abbattimento reciproco dei dazi alla base del Ttip. Ecco, se la linea di FdI è mutata radicalmente, quella di Fitto no: è sempre la stessa.
Non si può dire che sia stato lui a far cambiare idea a Giorgia Meloni: il lavoro più grande l’hanno fatto la forza della realtà e le nuove circostanze internazionali. Per un paese come l’Italia che da un lato esporta e ha una manifattura diversificata e dall’altro ha necessità di importare commodity e materie prime critiche, l’accordo con il Mercosur è perfetto per come le esigenze dei due blocchi continentali ed economici si integrano. Per giunta, i nuovi dazi di Trump aumentano la necessità di aprire nuovi mercati e diversificare le esportazioni: per quanto i paesi sudamericani non possano compensare integralmente le perdite sul mercato nordamericano, quantomeno le riducono notevolmente. Settori come l’automotive, la meccanica, la chimica, il vino e i formaggi non possono che ottenere benefici dall’abbattimento dei dazi.
Tutto questo Meloni, non più nel ruolo di oppositrice ma di premier, lo comprende da sola. Ma aveva bisogno di una via d’uscita per giustificare il cambio di posizione. Così, mentre l’attenzione pubblica era rivolta al loquace ministro Lollobrigida che si incontrava con i francesi capofila del fronte del no al Mercosur e criticava l’accordo per le conseguenze negative su un pezzo del settore agricolo, il silenzioso Fitto lavorava per trovare una soluzione politica. Perché se l’Italia fosse rimasta sul no – insieme Francia, Austria, Irlanda, Olanda, Polonia e Belgio – in Consiglio Ue si sarebbe raggiunta la minoranza di blocco (35% della popolazione Ue) e l’accordo sarebbe saltato. Una pesante sconfitta per Ursula von der Leyen che punta molto sul trattato.
Il compito di Fitto, per avvicinare la Commissione e il governo italiano, è stato quello di strappare ulteriori salvaguardie e tutele per gli agricoltori tali da poter giustificare il cambio di posizione del governo italiano. In questo modo, oltre a godere dei benefici commerciali, l’Italia ha assunto un ruolo determinante in Europa per salvare un accordo il cui negoziato è durato oltre 20 anni. L’esatto contrario di ciò che Meloni ha fatto con il veto alla ratifica del Mes, bloccando una riforma su cui tutta l’Eurozona è d’accordo. Chissà se non sia il caso di riaprire anche quel dossier.



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