Dal 2000, cioè dalla presidenza Bush in poi, negli Stati Uniti avevano chiuso 780 centrali a carbone (foto Getty) 

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Il mondo sui carboni ardenti

Siegmund Ginzberg

La fonte più inquinante e letale ora brucia più che in passato. La fame d’energia e l’addio alle buone intenzioni

Dovrei essere grato al carbone. Avevo cinque anni. Una tosse perniciosa mi consumava settimana dopo settimana. I farmaci non avevano effetto. Mia mamma mi portò a Kadiköy, dall’altra parte del Bosforo, dove aveva sede la più vetusta centrale che alimentava Istanbul. Risaliva ai tempi ottomani. L’hanno dismessa negli anni 90 del secolo scorso, da allora è stata trasformata in museo. Si fece dare un sacchettino di carta con qualche pezzo di carbone coke. Mi fece aspirare i fumi. La pertosse passò. Forse è la ragione per cui sin da bambino mi sono piaciuti gli odori chimici, aspri e pungenti. Dalle vernici con cui si rinfrescavano le vecchie barche a remi di legno, alla Coccoina, al toscano forte…

Vecchio, caro carbone. A casa ci si riscaldava con la stufa. Non so più quante scottature nel toccare inavvertitamente i lucenti tubi di scarico. Nella Pechino degli anni 80 ci si scaldava e si cucinava con rondelle di polvere di carbone. Ho indelebile la visione dello Shanxi tutto giallo di loess e nero di carbone. Le strade erano ingombre di file di carretti tirati a mano o coi cavalli. Un cavallo si era accasciato sfinito dalla fatica. Non riuscirono a tirarlo su. Non è più così. Nel frattempo hanno chiuso (tra le proteste delle maestranze e degli enti locali) migliaia di piccole miniere. Ma lo Shanxi, che è stato definito “la Pennsylvania della Cina”, continua a produrre un terzo del carbone della Cina

Senza carbone non ci sarebbero stati la rivoluzione industriale, le fabbriche, né la classe operaia. Fu una fantastica e terribile epopea. Con costi umani altissimi. Una catena senza fine di terribili incidenti che intrappolavano i minatori nelle viscere della terra. Anche bambini sotto i sei anni, che fino a metà Ottocento erano metà della forza lavoro impiegata nelle miniere. Avevano continuato a impiegarli fino al Novecento avanzato. Città interamente annerite dalle polveri di carbone (il “fumo di Londra” ha dato il nome a un colore molto di moda nell’abbigliamento elegante maschile). L’epopea ha lasciato un segno indelebile nella letteratura dei due secoli precedenti il nostro. Viene narrata, nei diversi aspetti, in un libro, vecchiotto ma ancora valido, di Barbara Freese, Coal: A Human History (Basic Books, 2003, edizione riveduta e aggiornata).

 

Senza carbone non ci sarebbero stati la rivoluzione industriale, le fabbriche, la classe operaia. Epopea fantastica e terribile, dai costi umani altissimi

               

        

Una storia conclusa, o che comunque volge alla fine? Non proprio. Nel mondo si brucia ora il doppio del carbone che si bruciava nel 2000. Il quadruplo di quello che si bruciava nel 1950. E’ tuttora la fonte di energia dominante nell’industria. Ma anche quella più inquinante di tutte. E’ quella che maggiormente contribuisce ai gas serra. E’ di gran lunga la più letale, anche rispetto alle altre fonti fossili. Dieci anni fa gli accordi di Parigi sul contenimento del surriscaldamento globale a 1,5 gradi sembravano annunciare la fine del carbone. Tutti i modelli convergevano nel dichiarare che era il primo dei grandi inquinanti a doversi ridurre (ancora più rapidamente del petrolio) se ci si voleva avvicinare all’obiettivo (raggiungerlo viene ormai ritenuto impossibile). Non c’è transizione ecologica che tenga se non si comincia a fare a meno del carbone. E invece domanda ed estrazione hanno continuato a crescere. A dispetto di ogni buona intenzione dichiarata. Specie in Cina e in India, che ne sono i maggiori consumatori al mondo.

 

Dieci anni fa gli accordi di Parigi sembravano annunciare la fine del carbone. Oggi se ne brucia il doppio rispetto al 2000, il quadruplo del 1950

             

    

Si suol dire che l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Figuriamoci se vengono meno anche le buone intenzioni. In Europa molti paesi hanno già rinunciato al carbone. Gli Stati Uniti sembravano avviati sulla buona strada: sono il paese che nell’ultimo decennio aveva più ridotto le centrali a carbone. Ma ora è cambiata la solfa. “Carbone è bello, è pulito”, il refrain di Trump. Sono aggettivi a cui tiene. Specie quando fa campagna nelle regioni minerarie. “Dico sempre [ai miei] di non omettere mai gli aggettivi bello, pulito quando dicono carbone”. L’ha ripetuto nel firmare davanti alle telecamere, circondato da minatori col casco, uno dei suoi primi ordini esecutivi da presidente, teso a incentivare, senza più limiti, l’estrazione, il consumo, e pure l’esportazione di carbone. 

 

           

 

Felici i minatori. Malgrado il ritorno di un male che trent’anni fa sembrava in via di estinzione: l’antracosi, il Black Lung Disease, la “malattia del polmone nero”. La stima è che di questa condizione cronica soffra ora un minatore americano su dieci. Ma gli preme di più che riaprano le miniere. E’ stato il voto dei minatori della Pennsylvania a far vincere Trump. Dal 2000, cioè dalla presidenza Bush in poi, avevano chiuso ben 780 centrali a carbone. Le 400 centrali a carbone rimanenti ormai forniscono non più del 16 per cento del fabbisogno elettrico degli Stati Uniti. Molto meno delle centrali a gas, del nucleare e delle rinnovabili. Era pianificato che metà delle centrali in funzione chiudessero o fossero trasformate anche loro. Ma molte, almeno un terzo di quelle che sarebbero dovute andare in pensione, hanno posticipato, o addirittura cancellato la chiusura. 

L’India di Narendra Modi si era impegnata ad azzerare le emissioni di anidride carbonica da qui al 2070. Buona intenzione, anche se, come disse Keynes, “a lungo termine saremo tutti morti”. Ma intanto il loro ricorso al carbone aumenta, anziché diminuire, e malgrado ingenti investimenti in rinnovabili. La Coal India, statale, che è la più grande compagnia di produzione di carbone al mondo, ha appena annunciato la riapertura di oltre 30 miniere che erano state chiuse e l’apertura di altre 5 miniere nuove, da aggiungere alle 310 miniere in operazione. Il carbone continua a fornire tre quarti della produzione di elettricità del paese. La previsione è che l’uso del carbone continuerà a crescere fino al 2035 (quest’anno hanno raggiunto il record assoluto di 1 miliardo di tonnellate, con un aumento del 5 per cento rispetto all’anno precedente; l’aumento continuerà ad essere, secondo le previsioni ufficiali, del 6-7 per cento all’anno). Poi, dicono, si assesterà. E comincerà a diminuire. Ma solo dal 2047 in poi. 

 

La Cina continua a bruciare più carbone di Stati Uniti ed Europa insieme. La Coal India ha annunciato la riapertura di oltre trenta miniere 

                   

La Cina si è mossa in direzione delle fonti rinnovabili prima e su maggiore scala di tutti gli altri. Sono anni che Pechino non è più immersa in una perenne nuvola di smog. Sono scomparse le vecchie stufette a blocchi di polvere di carbone. Hanno decentrato le fabbriche. Hanno installato più turbine a vento e pannelli solari di tutto quanto il resto del mondo. Hanno il primato assoluto nella produzione di batterie sempre più efficienti. Hanno più di metà dei brevetti per la produzione di energia pulita di tutto il mondo. Hanno trentuno nuovi reattori nucleari in costruzione. Si apprestano a soffiare agli Stati Uniti il primato nelle nuove tecnologie nucleari. Hanno il primato assoluto, in qualche caso il monopolio, nelle terre rare indispensabili per le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale. Le vendono a tutti, così come vendono a tutti le loro auto elettriche. Esportazioni virtuose: la stima è che da sole contribuiranno a ridurre dell’1 per cento le emissioni nel resto del mondo. Ma intanto loro continuano a bruciare più carbone e ad emettere più inquinamento climatico di Stati Uniti ed Europa insieme. Con le migliori intenzioni, continueranno così per un bel po’. Se hanno cambiato rotta da un paio di decenni, non è stato per salvare il mondo. L’hanno fatto perché dover importare fonti di energia che non hanno minacciava la loro sicurezza.

Meno male che, parlando l’altro giorno a New York, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha sostenuto che i fossili (carbone incluso) “stanno finendo fuori strada”, e che “un futuro di energia pulita non è più una promessa, è un fatto”. In effetti, secondo l’ultimo rapporto Onu, nel 2024 le rinnovabili hanno fatto la parte del leone rispetto alle fonti fossili: il 92,5 per cento dell’aggiunta complessiva di capacità e il 72 per cento della crescita di generazione aggiuntiva di elettricità. Pulito non è solo più etico: ormai pure conviene. Secondo l’Irena (International Renewable Energy Agency) il 90 per cento delle rinnovabili produce ormai su scala mondiale a minor costo delle alternative fossili più a buon mercato (il calcolo include le spese di investimento di capitale e di operazione degli impianti, ma non i costi delle infrastrutture di trasmissione e di distribuzione). “I paesi che si aggrappano ai combustibili fossili non stanno proteggendo le loro economie: le stanno sabotando”, l’ammonimento di Guterres. Che però non pare destinato ad avere maggior ascolto dei suoi ammonimenti sulle guerre in Ucraina e nel medio oriente. 

I conti senza l’oste non tornano. Un fatto è che il mondo intero è sempre più affamato di energia. L’intelligenza artificiale promette aumenti esponenziali dei consumi di elettricità. Si stima che tra il 2030 e il 2035 i grandi centri dati che “addestrano” modelli sempre più complessi, consumeranno il 20 per cento dell’elettricità prodotta nel mondo. Se non si trovano nuove fonti, non resterà che grattare il fondo del barile di tutte le fonti esistenti, sporche, carbone compreso, o pulite che siano. Un secondo fatto è che da gennaio alla Casa Bianca c’è Trump. Che non ha mai fatto mistero del suo programma, tutto sbilanciato sui combustibili fossili: “Drill, baby, drill”. Altro che ridurre carbone, petrolio e al gas. Dà via libera a tutti i progetti divora-energia della Silicon Valley. Massacra il suo ex amico Musk togliendogli gli incentivi alle auto elettriche.

Trump sta assumendo il ruolo di pusher mondiale degli idrocarburi. Spingendo Giappone, Corea, e pure l’Europa, a comprargliene di più. Totali sono il suo scetticismo e disinteresse per le conseguenze climatiche: ha sistematicamente tagliato i fondi a tutte le agenzie che monitorano i mutamenti climatici, sospette di “narrazioni” che possano contraddire la nuova corsa agli idrocarburi, ha persino chiuso i siti su cui rendevano pubbliche le loro ricerche. “Clima” sembra essere diventata parola tabù in America, quanto ogni minima critica al Partito comunista, o a Xi Jinping, o alla strage di piazza Tiananmen del 1989 sono da sempre parole tabù, temi proibiti per i siti cinesi. Ha licenziato centinaia di scienziati ed esperti che sinora compilavano i rapporti pubblici sull’argomento. Ne ha assunti altri noti per aver sostenuto che la questione clima è ancora scientificamente “irrisolta”, per aver messo in dubbio che il surriscaldamento del pianeta sia dovuto all’attività umana; ha assunto persino un meteorologo dell’Università dall’Alabama, affiliato alla Heritage Foundation - il think-tank di estrema destra, coautore del famigerato Project 2025 - il quale sostiene che sia causato invece dalle nubi, e che aveva pubblicato un rapporto intitolato “Migliorare la vita umana” in cui si argomenta che i combustibili fossili sono “essenziali” per risolvere la povertà globale. 

 

Trump ha vinto anche grazie al voto dei minatori della Pennsylvania. Ora ha assunto il ruolo di pusher mondiale degli idrocarburi

              

 

Ma come, con l’America ormai sconvolta continuamente da alluvioni assassine, tempeste, tifoni, fenomeni atmosferici abnormi, possibile che l’opinione pubblica gli lasci passare liscio questo smaccato negazionismo? Accetti senza farne un dramma il ritorno all’irresponsabilità del passato? Possibile. Nel porsi questo interrogativo a proposito dell’alluvione in Texas, il giurista Cass Sunstein, studioso di razionalità e irrazionalità dei comportamenti, ha ricordato che, anche di fronte a fatti traumatici, tendono a prevalere le opinioni preconcette. Chi già prima riteneva che i mutamenti climatici sono un pericolo reale, continuerà a sostenere che bisogna fare assolutamente qualcosa per fermarli. Chi invece era già convinto che il clima è una balla, che certe tragedie sono sempre successe, dal Diluvio universale in poi, difficilmente cambierà idea. Continuerà a ritenere che Trump abbia ragione a fregarsene. 

L’offensiva, la retromarcia a tutto campo, non riguarda solo l’America. Tocca anche chi, come l’Europa, andava, bene o male, nella direzione opposta. Il guaio è che le grandi potenze del pianeta hanno interessi diversi sulla questione climatica. E quindi a una sfida che sino a non molto fa veniva considerata “globale”, da risolvere “tutti insieme”, stanno rispondendo in ordine sparso, anzi contraddittorio. Gli Stati Uniti di Trump (ma già in qualche misura i suoi predecessori) puntano a trarre il massimo vantaggio dalla situazione esistente, e dalle fonti di cui hanno già la disponibilità. E così gli altri. Un saggio recente di Lucio Caracciolo l’ha presentata in modo estremamente schematico ma suggestivo. La questione non è se ci siano mutamenti climatici in atto, né se siano dovuti all’attività umana, o ad altri fattori. Dando per scontato che qualcosa si sta muovendo, che le temperature stanno salendo, l’America punterebbe alla Groenlandia e alle sue miniere (e le mire sul Canada vanno ovviamente nella stessa direzione). La Russia vorrebbe approfittare del cambio di temperature che sta scongelando il permafrost siberiano, mentre continua a vendere il petrolio e il gas (e a finanziare coi ricavi la sporca guerra di Putin in Ucraina). E tra chi glielo compra c’è la Cina. La Cina sarebbe interessata a produrre (e vendere al resto del mondo) le tecnologie per l’adattamento. En passant, tutti quanti sarebbero interessati alle nuove rotte artiche, il nuovo mito del “Passaggio a nord-ovest”, rese possibili dallo scioglimento dei ghiacci, che consentirebbero enormi risparmi di tempo e di risorse nel muovere le merci, comprese le materie prime energetiche. A prenderle da tutti resterebbe l’Europa, che si è attardata, anzi ha esagerato nel ruolo di crocerossina del clima. Si chiama geopolitica, bellezza!

Semplicistico? Probabilmente. Sgradevole? Certamente. Ma alcune cose paiono incontrovertibili. Pochi ormai ritengono possibile raggiungere l’obiettivo, che ci si era prefissati un decennio fa, di contenere il surriscaldamento. Le emissioni, a dispetto di tutti i buoni propositi, anziché diminuire, sono aumentate di circa lo 0,8 per cento ogni anno. Il “net zero” entro il 2050 appare ormai irrealistico. Dovremmo riuscire a ridurle del 4,8 per cento all’anno. Se le riducessimo dell’1 per cento all’anno dovremmo attendere il 2160 per raggiungere l’equilibrio. Se lo facesse solo l’Europa, sarebbe come svuotare il mare con un secchiello.

In questo quadro fosco, di pessimismo cosmico e apocalittico, c’è chi, come Caracciolo, propone di cambiare i parametri, di rinunciare all’obiettivo di arrestare il cambiamento climatico e di concentrarsi invece sul limitarne e contrastarne le inevitabili conseguenze. L’Italia, ad esempio, potrebbe lavorare sui corsi d’acqua che continuano ad esondare, concentrandosi su grandi lavori per il riassetto del territorio e del corso dei fiumi, di fronte al ripetersi sempre più frequente di fenomeni come alluvioni e bombe d’acqua, che peraltro colpiscono sempre gli stessi punti fragili. Insomma rimediare, piuttosto che prevenire ed eliminare le cause, che è ormai impossibile. Non mi hanno mai convinto catastrofismi e profezie di apocalisse, che vengono fuori da che mondo è mondo. Ma l’idea mi pare sensata. Non ho mai capito perché la sinistra non si sia mai battuta per grandi lavori idraulici, investimenti epocali, un piano per il riassetto del territorio di portata pari al “Next generation Europe”. Così come non ho mai capito perché abbia lasciato alla destra un tema altrettanto epocale come la crisi demografica. Una cosa invece mi pare chiara: che col carbone dovremo continuare, purtroppo, a convivere per un bel po’.