
Una vecchia scritta contro il Jobs Act, risalente al 2014 (foto d'archivio Ansa)
l'analisi
Salari erosi, contratti bloccati, potere di mercato delle imprese. Le svolte che mancano al governo sul lavoro
Invece di incagliarsi in una discussione vecchia di 10 anni, bisognerebbe cercare di concentrarsi sui veri problemi del nostro paese. E per cui le risposte individuate dal governo sono ancora lacunose
Il referendum sul Jobs Act è fallito non per mancanza di argomenti, ma perché ha mancato il bersaglio. Discutere nel 2025 di una riforma del 2015 ha dato l’impressione di un dibattito divisivo e incagliato nel passato. Nel frattempo, il mondo del lavoro è cambiato: i salari reali sono fermi al 2019, le imprese faticano ad assumere e l’automazione ridefinisce le mansioni. Il discorso pubblico non dovrebbe restare fermo all’articolo 18. Nel frattempo, da molti punti di vista, l’economia italiana sorprende.
Dal 2018 a oggi il PIL è cresciuto del 5,5%, contro il 2,6% della Germania. Gli investimenti fissi lordi sono aumentati del 17,8%, trainati dal superbonus (disastroso per i conti pubblici ma buono per gli investimenti) e dai vecchi incentivi 4.0 -mentre la revisione del Pnrr incentrata sul 5.0 è stata un fallimento. L’export supera il 50% del fatturato industriale, con una ripresa anche degli investimenti dall’estero dopo anni di stagnazione. I conti pubblici reggono, e bisogna ammettere che la stabilità politica, dopo un decennio turbolento, è un fattore di vantaggio. Ma c’è un paradosso: se l’economia va, non è grazie al governo. Il governo Meloni, sul piano economico interno, ha fatto poco o nulla di strutturale. Il principale merito – la tenuta dei conti – è sì attribuibile allo stop tardivo del superbonus, solo nel secondo anno del governo Meloni, ma soprattutto all’inflazione: +17 per cento cumulato nei due anni post-Covid, che ha gonfiato il gettito e ridotto in termini reali il debito. Ma l’inflazione, si sa, ha effetti redistributivi molto forti. E proprio qui il governo ha scelto la passività. Quattro effetti principali, resi visibili dalla dinamica dei prezzi, restano irrisolti.
Primo: il fiscal drag. In un sistema progressivo, l’inflazione spinge i redditi verso scaglioni più alti senza aumento del potere d’acquisto. L’OCSE ha stimato che dal 2023, in Italia, il prelievo fiscale effettivo sui salari medi è aumentato di quasi un punto percentuale. Il governo ha corretto parzialmente le aliquote IRPEF solo per i redditi bassi, ma ha tagliato i trasferimenti agli enti locali e lasciato crescere le addizionali regionali e comunali. Per i redditi sopra i 35.000 euro lordi, la pressione fiscale reale è aumentata, lo abbiamo mostrato in ogni modo. Secondo: contratti e potere di mercato. Il ritorno dell’inflazione ha evidenziato la debolezza della contrattazione collettiva. Con il 50% dei contratti scaduti, i rinnovi arrivano in ritardo e sono insufficienti, sicuramente nei servizi e nel pubblico impiego da anni ormai. Ma la vera causa sta altrove: molte imprese, in posizione dominante, evitano di assumere per non attivare dinamiche salariali che costerebbero su tutta la forza lavoro esistente. Si chiama potere di mercato delle aziende sul mercato del lavoro, mi riprometto di affrontarlo in un altro articolo, è un tema molto studiato in tutto il mondo, ma il governo ha finta di non vedere mentre il lavoro salariato ha perso diversi punti di potere d’acquisto. Terzo: i profitti dell’energia. Durante la crisi energetica del 2022-23, le società di produzione e distribuzione hanno registrato margini record: oltre 45 miliardi di utili complessivi in due anni. La produzione industriale invece è scesa del 3%, colpendo in particolare la manifattura energivora del Nord. Il governo ha sottratto in tre anni 15 miliardi di risorse alle grandi imprese (tra ACE, decontribuzione sud e fondi dell’automotive) e ha adottato politiche meramente redistributive (bonus) e occasionali (sconti in bolletta), senza una strategia industriale coordinata. Solo ora Confidustria ha alzato la voce (e un accordo con le società di produzione non sembra impossibile): chissà se la Commissione non decida lei di riallocare alle imprese parte dei fondi non spesi del PNRR.
Quarto: la finanza informale. La svalutazione reale del contante ha incentivato l’uso di strumenti alternativi. Le rimesse tramite criptovalute – spesso usate da lavoratori migranti senza accesso al circuito bancario – sono cresciute in doppia cifra. Meno male che la Banca d’Italia lo ha messo al centro della riflessione: il tema dei pagamenti digitali non tracciati non è più solo un tema di flussi illegali ma un tema che rischia di coinvolgere vasti pezzi dell’economia reale. A questi nodi congiunturali si sommano i problemi strutturali che l’inflazione ha solo reso più urgenti. Il più importante è la demografia. L’ISTAT prevede la perdita di oltre un milione di lavoratori nei prossimi vent’anni. Il sistema pensionistico, la scuola, la sanità, il fisco e il mercato del lavoro saranno messi sotto pressione. In questo senso, il referendum sulla cittadinanza poteva essere un’occasione per un dibattito più profondo. Invece, anche questo tema è rimasto ostaggio dello scontro ideologico: da un lato chi vorrebbe aprire a tutti subito, dall’altro chi chiuderebbe per sempre. E nel frattempo si perde tempo prezioso.


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