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verso il referendum

Tutte le balle da smontare sui licenziamenti causati dal Jobs Act

Francesco Armillei

È anche grazie alle riforme del periodo 2012-2018 che oggi abbiamo un sistema di sostegno alla disoccupazione molto più inclusivo e generoso di 20 anni fa. Ma il vero nodo è la mancata crescita dei salari

Il dibattito di queste settimane sui quesiti referendari in materia di lavoro è particolarmente sprovvisto di dati: eppure quando si parla di economia e mercato del lavoro i dati sono uno strumento fondamentale per prendere decisioni di buon senso, che possano davvero portare soluzioni concrete dalla parte dei cittadini e dei lavoratori. 

Sul tema dei licenziamenti, in particolare, ci sono tre dati che non possono essere ignorati: uno, abbiamo oggi il più basso numero di licenziamenti degli ultimi venti anni; due, abbiamo un sistema di sostegno alla disoccupazione molto più inclusivo e generoso di 20 anni fa; tre, il tempo necessario per trovare un nuovo lavoro a seguito di un licenziamento è in diminuzione.

Cominciamo dal primo dato: nel 2024 ci sono stati 42 licenziamenti ogni 1.000 lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, il rapporto più basso degli ultimi 20 anni. Più basso, infatti, del valore di 70 registrato nel 2012 al picco della crisi dei debiti sovrani, ma anche del 55 del 2005, prima delle due grandi recessioni. Insomma, non possiamo dimenticare che il mercato del lavoro italiano di questi ultimi anni tiene insieme il più alto numero di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato del secolo, e il più basso numero di licenziamenti. Le ragioni dietro tutti questi numeri sono molteplici: le principali da menzionare sono la fase di crescita (moderata) vissuta nel periodo post-Covid, la transizione demografica (che rende i lavoratori sempre più preziosi per le aziende) e le riforme del periodo 2012-2018 che hanno riorganizzato e razionalizzato la legislazione italiana in materia di mercato del lavoro.

Secondo dato: uno degli obiettivi chiave della riforma Fornero e del Jobs Act era quello di rendere più inclusivo e generoso il sistema di sostegno alla disoccupazione. Per questo motivo è stata introdotta la NASpI, che ha requisiti di accesso molto più leggeri rispetto ai sussidi precedenti e può potenzialmente durare fino a 2 anni, molto più delle misure precedenti. L’effetto di queste riforme è stato in primo luogo un aumento del tasso di copertura, ovvero la percentuale di disoccupati che hanno diritto ad un beneficio, che è passato dal 61 per cento del 2012 all’86 per cento del 2015 (secondo uno studio del 2018 della Banca d’Italia). In secondo luogo, l’aumento della durata dei benefici ha permesso di proteggere i lavoratori dalle conseguenze negative della disoccupazione per tempi più lunghi: nel 2012, meno del 10 per cento dei disoccupati riceveva un sussidio a un anno dal licenziamento, mentre il 2017 tale percentuale aveva già superato il 30 per cento.

Terzo e ultimo dato: se quindi i licenziamenti sono un evento sempre più raro e con un sostegno pubblico sempre più generoso, negli anni sono diventati anche un evento con conseguenze temporalmente più contenute. La percentuale di lavoratori licenziati da un contratto a tempo indeterminato full-time che trova un lavoro entro sei mesi è salita dal 34 per cento del 2013 al 46 per cento del 2022.

 

           

E’ improbabile che l’8 e 9 giugno venga raggiunto il quorum del 50 per cento, ma i referendum potrebbero essere un’occasione utile per sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti purtroppo troppi comuni rispetto allo stato di salute del mercato del lavoro italiano. In termini “quantitativi” la situazione è in costante miglioramento: non siamo più negli anni della crisi, non abbiamo più un problema di posti di lavoro che mancano e di disoccupati che aumentano (anzi: anche la disoccupazione è tornata stabilmente sotto il 6 per cento, come non si vedeva da 20 anni). 

La vera questione oggi è la mancata crescita dei salari, a sua volta dovuta all’assenza di crescita economica e della produttività: su questo tema i quesiti referendari (e i loro promotori) sono invece silenti, così come lo è la maggioranza di governo.
 

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