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l'analisi
Mercato del lavoro forte e salari deboli: cosa può fare il governo
La situazione occupazionale italiana appare stabile solo in superficie: i salari restano bassi e la stagnazione produttiva frena lo sviluppo. Serve una riforma fiscale che tenga conto dell’inflazione e sblocchi la crescita salariale senza penalizzazioni
I dati Istat sull’occupazione di marzo mostrano un’inversione di segno di quasi tutti gli indicatori congiunturali, ma non tanto da influire significativamente suoi dati tendenziali. Diminuisce impercettibilmente l’occupazione rispetto a febbraio (-0,1 per cento), ma il calo è dovuto quasi totalmente al lavoro autonomo (-0,3 per cento) e al lavoro a tempo determinato (-2,4 per cento). Se consideriamo l’intero I trimestre i valori sono ancora positivi, soprattutto l’occupazione (+0,9 per cento). Anche i dati sulla forza di lavoro non si discostano da questo trend: il tasso di occupazione è intorno al 63 per cento per tutto il trimestre, a fronte di un 2024 più o meno stabile poco sopra il 62 per cento. Stabili dagli ultimi mesi del 2024 i tassi di disoccupazione, intorno al 6 per cento, e in leggero calo il tasso di inattività, sceso sotto il 33 per cento.
Sotto la sostanziale stabilità dei dati si celano però due dinamiche che ci parlano di un mercato del lavoro tutt’altro che consolidato. La prima riguarda i giovani: le fasce di età 15-24 e 25-34 anni sono le uniche che vedono calare l’occupazione sia in termini congiunturali (-0,4 per cento) sia tendenziali (-0,5 e -1 per cento) e aumentare il dato tendenziale del tasso di inattività di quasi l’1 per cento. Anche al netto della componente demografica, il tasso di occupazione della fascia 15-34 anni cala negli ultimi 12 mesi dell’1,8 per cento, invertendo una tendenza che dalla fine del 2023 sembrava orientata alla crescita. Un segnale chiaro che l’occupazione tende a concentrarsi tra le fasce di età medio-alte. Questa situazione può dipendere sia dai movimenti demografici sia dai provvedimenti tesi a ritardare l’età della pensione, ma resta da capire perché non funzionino efficacemente gli svariati strumenti destinati a sviluppare l’occupazione giovanile: programmi ben finanziati, come Garanzia Giovani e Gol, che tuttavia hanno prodotto risultati assai modesti in termini di avviamento al lavoro, mentre ogni anno 30-40 mila giovani, di solito molto qualificati, emigrano per trovare occupazione e retribuzione all’altezza dello loro competenze e aspettative.
Il problema è la sommatoria dei problemi legati ai giovani: l’emigrazione dei cervelli, il loro sottoutilizzo in patria (dove doveri e merito stentano a farsi strada), uniti alla diffusa inattività giovanile e al rifiuto di impegni di lavoro, costituiscono un ostacolo per la diffusione delle nuove tecnologie e dell’innovazione che sono indispensabili per evitare una stagnazione del sistema produttivo. A questo proposito, c’è da notare che, nonostante la stabilità (apparente) del mercato del lavoro, i dati macroeconomici indicano, e non da oggi, una tendenza in discesa o in stagnazione: il fatturato dell’industria registra un calo tendenziale di 1,5 punti in termini di valore e di 2,2 in termini di volume. La produttività del lavoro è piatta dal 2000, e quella totale dei fattori lo stesso. L’inflazione sembra assestarsi attorno al 2 per cento, quanto basta per frenare la corsa al recupero del potere d’acquisto dei salari determinato dal rinnovo di molti Ccnl spesso da troppo tempo scaduti; l’aumento medio per l’intero settore privato è del 4,19 per cento, ben lontano dal riportare i salari italiani al livello medio europeo (24.051 euro annui contro 29.056). Il quadro finale non è roseo: un’economia stagnante, dove cresce l’occupazione soprattutto a buon mercato, con redditi bassi che limitano il mercato interno. Una prospettiva di economia ad alto tenore di mano d’opera povera (salvo isole felici) e basso tasso di tecnologia: il rischio di finire così non è fantapolitica.
C’è inoltre il problema dei salari che potrebbe essere risolto dal governo, senza eccessive perdite di gettito, mantenendo una pressione fiscale reale uguale nel tempo. Sarebbe una soluzione equa nei confronti dei contribuenti che è vero guadagnano di più, ma non recuperano il potere d’acquisto modificato dalla recente fiammata inflazionistica (in tre anni circa il 15 per cento). Se si vuole mantenere costante il livello di pressione fiscale, occorre tener conto dell’inflazione. Ad esempio 50 mila euro di reddito lordo del 2020, nel 2025 sono svalutati, applicando l’indice Nic, di circa il 15 per cento. Pertanto, sarebbe equo spostare in avanti di pari importo lo scaglione di reddito sul quale applicare l’Irpef. Nel nostro caso il limite dei 50 mila euro oltre il quale l’aliquota passa dal 35 al 43 per cento dovrebbe essere spostato in avanti di almeno 7.500 euro. Occorre inoltre considerare che le tante norme su decontribuzione, Tir e sgravi fiscali concentrati sui redditi fino a circa 30 mila euro determinano un blocco degli aumenti perché, anche un aumento di 100 euro netti può in contemporanea, fare perdere sgravi, e far passare all’aliquota successiva, con il paradosso che anziché trovarsi un aumento in busta paga si scopre una perdita. E’ su questi temi reali che dovrebbe esercitarsi la politica.