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l'approccio possibile

La terza via per abbattere le emissioni senza ideologia c'è

Carlo Stagnaro

Per il paper del Tony Blair Institute, occorre investire in ricerca e sviluppo e non guardare alle sole fonti rinnovabili. Ma smettere di parlare di negazionismo è necessario 

Quando la sfida della transizione energetica entra nel vivo, è bene che siano i decisori politici – e non gli attivisti – a pilotarla. E’ questo, in sintesi, il messaggio di uno studio divulgato ieri dal Tony Blair Institute, realizzato dalla responsabile clima Lindy Fursman e preceduto da una prefazione dell’ex premier britannico. Il rapporto sottolinea i rischi che derivano dalla divaricazione tra le aspettative che tutti pongono sulle politiche di decarbonizzazione e i loro costi. Questi rischiano di delegittimare l’azione climatica, rendendo impossibile raggiungere la neutralità carbonica. Per Blair, gli obiettivi climatici devono fare i conti con alcune “verità scomode”: nonostante i massicci investimenti nelle fonti rinnovabili e la crescente ambizione politica, negli ultimi quindici anni le emissioni globali sono cresciute, e con esse la richiesta di combustibili fossili.

Ciò è dovuto anche allo sviluppo di aree del mondo che prima erano (o tuttora sono) poverissime: nei prossimi vent’anni i traffici aerei raddoppieranno, l’Africa conoscerà una forte espansione demografica ed economica e gran parte delle emissioni globali proviene ormai da paesi emergenti. Occorre quindi ripensare radicalmente il nostro approccio a questi temi: “I leader politici sanno che il dibattito è diventato irrazionale. Ma hanno paura di dirlo per timore di essere accusati di ‘negazionismo’. Come sempre, se le persone di buon senso non prendono posizione sul modo in cui una campagna viene condotta, la campagna rimane nelle mani proprio di quelli che si stanno alienando l’opinione di coloro dal cui consenso l’azione stessa dipende”. Questo fenomeno, prosegue Blair, è diventato particolarmente odioso nel contesto delle conferenze delle parti (Cop), cioè i negoziati annuali dell’Onu sul clima: poiché i leader politici non si sentono a proprio agio finiscono per attribuire a quegli appuntamenti un mero valore simbolico e di comunicazione, svuotandoli della potenzialità di incidere sulla realtà.

Che fare, allora? Il paper firmato da Lindy Fursman punta in due direzioni sinergiche: da un lato, investire in ricerca e sviluppo per mettere a disposizione del mondo tecnologie in grado di abbattere le emissioni; dall’altro, non guardare alle sole fonti rinnovabili, ma considerare anche altre soluzioni complementari. L’autrice ne cita alcune: la cattura del carbonio; l’impiego dell’intelligenza artificiale per migliorare l’efficienza nella produzione e negli usi dell’energia; le tecnologie di frontiera, come il nucleare di nuova generazione e la fusione nucleare; le tecnologie per l’assorbimento della CO2 (incluso il miglioramento genetico delle piante per aumentarne la capacità di immagazzinare anidride carbonica); adattarsi ai cambiamenti climatici, i cui effetti sono comunque destinati a materializzarsi e già lo stanno facendo; semplificare gli sforzi globali per trovare accordi e forme di cooperazione; e ripensare il ruolo della finanza verde (inclusa la filantropia). 

Nel rapporto c’è poco di nuovo: la novità sta nel megafono da cui arriva. Chi pensa che abbattere le emissioni sia un imperativo concreto, e non uno slogan da brandire contro gli avversari, dovrebbe leggere con attenzione i suggerimenti di Blair.
 

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