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Contrastare il precariato, oltre la logica del decreto Dignità

Luciano Capone

Il mercato del lavoro va molto bene e macina record, ma sui contratti a termine c’è un guaio serio: dopo due anni, l'80% non viene stabilizzato. Ma si può fare qualcosa per rendere il tempo determinato più sconveniente

Da un triennio i dati sul lavoro sono molto positivi: aumenta la partecipazione, record di occupati, cresce l’occupazione a tempo indeterminato, in tutte le fasce d’età, in particolar modo tra le donne e al sud più che al nord. C’è però una nota negativa che riguarda il tempo determinato. Non è il precariato dilagante di cui parla la Cgil senza guardare i numeri e la realtà. I dati dicono che il lavoro a termine è in diminuzione e che c’è stato, negli ultimi anni, un processo di stabilizzazione con un aumento del tasso di trasformazione di contratti a tempo determinato e di apprendistato rispetto al 2019.

In questo trend positivo, però, c’è un problema di persistenza di lavoratori con contratti a termine. Nell’ultima relazione annuale la Banca d’Italia – pur segnalando un calo dell’incidenza del lavoro a termine – sottolinea che “l’80% dei lavoratori con un contratto a tempo determinato non viene stabilizzato entro due anni dall’assunzione”. I ricercatori di Via Nazionale hanno preso i nuovi rapporti di lavoro a termine da inizio 2022 e li hanno seguiti per i due anni successivi: il 50% non risulta più impiegato come dipendente (è inoccupato, lavoratore autonomo o in nero); solo il 20% ha un’occupazione a tempo indeterminato; il 30% è ancora occupato con un contratto a termine, in minima parte nella stessa azienda e in larghissima parte in un’altra. Perché?

“Secondo la nostra analisi – scrive la Banca d’Italia – ciò è dovuto al fatto che un numero significativo di imprese, anziché stabilizzare il personale già assunto con contratti di tipo temporaneo, preferisce assumere nuovi lavoratori a termine”. Questo fenomeno si concentra in settori che “utilizzano sistematicamente contratti di breve durata” come costruzioni, turismo e ristorazione, sport e spettacolo “in larga misura indipendentemente dalla stagionalità dell’attività”. Ciò vuol dire che non c’è un uso sano dei contratti a termine, che pure non vanno demonizzati e hanno un importante ruolo – spesso non sostituibile – nei processi produttivi e organizzativi. Semplicemente, ci sono imprese in settori a basso valore aggiunto che, potendo sostituire i dipendenti, scaricano i costi dell’incertezza sui lavoratori e sulla collettività (visto che poi, in caso di disoccupazione, viene erogata la Naspi). 

I dati, inoltre, sembrano suggerire che il decreto Dignità e la logica sottostante di forzare la trasformazione dei contratti a termine dopo un anno non hanno ottenuto particolari risultati. Non c’è stato alcun salto di qualità: le imprese che possono – quelle che non hanno bisogno di dipendenti formati o particolarmente qualificati – hanno sostituito i lavoratori preferendo la rotazione alla stabilizzazione. E così 4 lavoratori a termine su 5 dopo due anni continuano a non avere un contratto stabile. Che fare, quindi?

 Si potrebbe, in una fase con mercato del lavoro in salute, rendere il lavoro a termine più sconveniente: lasciare la decontribuzione per i redditi sotto i 35 mila euro solo ai contratti a tempo indeterminato, ribaltandone il costo sulle imprese per i contratti a termine (in modo da non tagliare i salari netti). In pratica: sui contratti permanenti la decontribuzione la paga lo stato, su quelli temporanei le imprese. Aumentare il costo dei contratti a termine per le aziende da un lato internalizzerebbe il costo della Naspi (non interamente coperto dal contributo maggioritario dell’1,4%) e dall’altro incentiverebbe le trasformazioni, ma senza le forzature del decreto Dignità. 

In un periodo complicato per i conti pubblici, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti potrebbe recuperare risorse necessarie a confermare la decontribuzione. Ma fare cassa non deve essere il principale obiettivo della misura. La logica è simile a quella della tassa sugli extraprofitti delle banche: gli istituti di credito hanno potuto evitare la tassazione accantonando 2,5 volte l’ammontare dell’imposta, mentre in questo caso le imprese possono evitare i contributi aggiuntivi offrendo un contratto a tempo indeterminato. 

Quali sono le controindicazioni? La prima, ovvia, è che un aumento del costo del lavoro può far aumentare la disoccupazione. Ma in questa fase economica le imprese sono a caccia di personale, la domanda di lavoro è robusta. Naturalmente la si può pensare come misura temporanea, che rientra in caso di ciclo avverso quando invece i contratti a termine sono più utili.

L’altra obiezione è il sommerso: l’aumento dei contributi a carico delle imprese può spingere – soprattutto in settori come le costruzioni e il turismo – verso il lavoro nero o grigio. Non è un aspetto da sottovalutare. Ma proprio per affrontare questo problema il governo Meloni, e in particolare il ministro del Lavoro Marina Calderone che ha da poco istituito una task force, deve attuare il “Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso” che è una delle riforme previste dal Pnrr.

Tra gli obiettivi concordati con Bruxelles ci sono un aumento del 20% delle ispezioni rispetto al biennio 2019-2021 e una riduzione di almeno 2 punti di lavoro sommerso. Uno dei pilastri del Piano è la costruzione degli Indicatori sintetici di affidabilità contributiva (Isac), strumenti statistico-economici analoghi agli Isa in ambito fiscale (alla base della riforma del viceministro Maurizio Leo) costruiti con le banche dati di Inps e Agenzia delle entrate, per definire fasce di rischio ed effettuare controlli mirati sulle imprese meno affidabili.

È una buona occasione per trasformare il mercato del lavoro, proprio ora che è in ottima salute.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali