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Contrastare il precariato, oltre la logica del decreto Dignità
Il mercato del lavoro va molto bene e macina record, ma sui contratti a termine c’è un guaio serio: dopo due anni, l'80% non viene stabilizzato. Ma si può fare qualcosa per rendere il tempo determinato più sconveniente
Da un triennio i dati sul lavoro sono molto positivi: aumenta la partecipazione, record di occupati, cresce l’occupazione a tempo indeterminato, in tutte le fasce d’età, in particolar modo tra le donne e al sud più che al nord. C’è però una nota negativa che riguarda il tempo determinato. Non è il precariato dilagante di cui parla la Cgil senza guardare i numeri e la realtà. I dati dicono che il lavoro a termine è in diminuzione e che c’è stato, negli ultimi anni, un processo di stabilizzazione con un aumento del tasso di trasformazione di contratti a tempo determinato e di apprendistato rispetto al 2019.
In questo trend positivo, però, c’è un problema di persistenza di lavoratori con contratti a termine. Nell’ultima relazione annuale la Banca d’Italia – pur segnalando un calo dell’incidenza del lavoro a termine – sottolinea che “l’80% dei lavoratori con un contratto a tempo determinato non viene stabilizzato entro due anni dall’assunzione”. I ricercatori di Via Nazionale hanno preso i nuovi rapporti di lavoro a termine da inizio 2022 e li hanno seguiti per i due anni successivi: il 50% non risulta più impiegato come dipendente (è inoccupato, lavoratore autonomo o in nero); solo il 20% ha un’occupazione a tempo indeterminato; il 30% è ancora occupato con un contratto a termine, in minima parte nella stessa azienda e in larghissima parte in un’altra. Perché?
“Secondo la nostra analisi – scrive la Banca d’Italia – ciò è dovuto al fatto che un numero significativo di imprese, anziché stabilizzare il personale già assunto con contratti di tipo temporaneo, preferisce assumere nuovi lavoratori a termine”. Questo fenomeno si concentra in settori che “utilizzano sistematicamente contratti di breve durata” come costruzioni, turismo e ristorazione, sport e spettacolo “in larga misura indipendentemente dalla stagionalità dell’attività”. Ciò vuol dire che non c’è un uso sano dei contratti a termine, che pure non vanno demonizzati e hanno un importante ruolo – spesso non sostituibile – nei processi produttivi e organizzativi. Semplicemente, ci sono imprese in settori a basso valore aggiunto che, potendo sostituire i dipendenti, scaricano i costi dell’incertezza sui lavoratori e sulla collettività (visto che poi, in caso di disoccupazione, viene erogata la Naspi).
I dati, inoltre, sembrano suggerire che il decreto Dignità e la logica sottostante di forzare la trasformazione dei contratti a termine dopo un anno non hanno ottenuto particolari risultati. Non c’è stato alcun salto di qualità: le imprese che possono – quelle che non hanno bisogno di dipendenti formati o particolarmente qualificati – hanno sostituito i lavoratori preferendo la rotazione alla stabilizzazione. E così 4 lavoratori a termine su 5 dopo due anni continuano a non avere un contratto stabile. Che fare, quindi?
Si potrebbe, in una fase con mercato del lavoro in salute, rendere il lavoro a termine più sconveniente: lasciare la decontribuzione per i redditi sotto i 35 mila euro solo ai contratti a tempo indeterminato, ribaltandone il costo sulle imprese per i contratti a termine (in modo da non tagliare i salari netti). In pratica: sui contratti permanenti la decontribuzione la paga lo stato, su quelli temporanei le imprese. Aumentare il costo dei contratti a termine per le aziende da un lato internalizzerebbe il costo della Naspi (non interamente coperto dal contributo maggioritario dell’1,4%) e dall’altro incentiverebbe le trasformazioni, ma senza le forzature del decreto Dignità.
In un periodo complicato per i conti pubblici, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti potrebbe recuperare risorse necessarie a confermare la decontribuzione. Ma fare cassa non deve essere il principale obiettivo della misura. La logica è simile a quella della tassa sugli extraprofitti delle banche: gli istituti di credito hanno potuto evitare la tassazione accantonando 2,5 volte l’ammontare dell’imposta, mentre in questo caso le imprese possono evitare i contributi aggiuntivi offrendo un contratto a tempo indeterminato.
Quali sono le controindicazioni? La prima, ovvia, è che un aumento del costo del lavoro può far aumentare la disoccupazione. Ma in questa fase economica le imprese sono a caccia di personale, la domanda di lavoro è robusta. Naturalmente la si può pensare come misura temporanea, che rientra in caso di ciclo avverso quando invece i contratti a termine sono più utili.
L’altra obiezione è il sommerso: l’aumento dei contributi a carico delle imprese può spingere – soprattutto in settori come le costruzioni e il turismo – verso il lavoro nero o grigio. Non è un aspetto da sottovalutare. Ma proprio per affrontare questo problema il governo Meloni, e in particolare il ministro del Lavoro Marina Calderone che ha da poco istituito una task force, deve attuare il “Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso” che è una delle riforme previste dal Pnrr.
Tra gli obiettivi concordati con Bruxelles ci sono un aumento del 20% delle ispezioni rispetto al biennio 2019-2021 e una riduzione di almeno 2 punti di lavoro sommerso. Uno dei pilastri del Piano è la costruzione degli Indicatori sintetici di affidabilità contributiva (Isac), strumenti statistico-economici analoghi agli Isa in ambito fiscale (alla base della riforma del viceministro Maurizio Leo) costruiti con le banche dati di Inps e Agenzia delle entrate, per definire fasce di rischio ed effettuare controlli mirati sulle imprese meno affidabili.
È una buona occasione per trasformare il mercato del lavoro, proprio ora che è in ottima salute.

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