i conti

Confindustria, Abi e Rgs: la lezione ignorata del Superbonus

Luciano Capone

Il costo del bonus edilizio è stato enorme (160 miliardi) eppure Emanuele Orsini, Antonio Patuell e Biagio Mazzotta non sembrano voler discutere dei propri errori di valutazione

È convinzione diffusa che di Superbonus si sia parlato troppo, eppure la realtà è che se ne sia discusso troppo poco. Almeno nelle sue implicazioni più importanti. Il bonus edilizio al 110% non è solo una pagina nera della storia della nostra finanza pubblica, ma anche un problema attuale e futuro.

L’attualità è data dalla cronaca. Per tappare la falla da decine di miliardi che si è aperta nel bilancio dello stato, ieri la Camera – dopo il Senato – ha approvato definitivamente il decreto del governo che riduce l’aliquota del bonus fino al 30% nel 2028, aumenta i controlli antifrode, impedisce alle banche di compensare i crediti con i contributi previdenziali e, soprattutto, allunga da 4 a 10 anni la detraibilità delle spese sostenute nel 2024.

Quest’ultima è la norma più contestata da parte della politica (sia nella maggioranza che nelle opposizioni) e da parte degli attori economici che più si sono avvantaggiati di questa misura. Ieri nel giorno del suo insediamento da neo presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, costruttore e grande sostenitore del Superbonus, ha dichiarato che non si può bloccare la misura “dall’oggi al domani”, che bisogna “far finire i lavori alle imprese” e che “non si possono fare norme retroattive”, come appunto lo spalma-detrazioni previsto dal governo.

Analogamente, il presidente dell’Abi (l’associazione delle banche), Antonio Patuelli, ha dichiarato che con il decreto del governo “le banche, essendo stato ridotto l’ambito di compensazione, dovranno fermarsi” e così “imprese e famiglie rischiano il default”. Pertanto, la frittata è fatta e la spesa deve continuare: Superbonus must go on. Il Fmi ha un parere opposto: nella sua analisi sull’Italia, il Fondo giudica in maniera negativa il Superbonus e chiede – per aggiustare i conti – di abolire “le misure inefficienti”, a partire dai “sussidi per la ristrutturazione delle case”.

Se il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, per mettere a posto il bilancio con il deficit più alto d’Europa e un debito crescente, alla linea del Fmi preferisse quella del mondo economico italiano l’implicazione sarebbe una: recuperare risorse da altre parti. Ma è facile immaginare che Orsini e Confindustria protesterebbero se venissero tagliati altri incentivi alle imprese, e che altrettanto farebbero Patuelli e l’Abi se tornasse in campo l’ipotesi di una tassa sugli extraprofitti delle banche, evitata in extremis lo scorso anno. Non si può avere tutto nella vita, la cosiddetta botte piena e moglie ubriaca: in economia lo chiamano trade-off, un concetto che dovrebbe essere tutt’altro che ignoto a banche e imprese.

L’impatto del Superbonus, però, non pare pienamente compreso neppure dalle strutture statali. Durante l’indagine conoscitiva sulla nuova governance economica europea delle commissioni Bilancio, dove si sta discutendo l’applicazione del nuovo Pato di stabilità, è stato audito il Ragioniere dello stato Biagio Mazzotta. Il Ragioniere ha discusso di svariati aspetti tecnici riguardanti le nuove regole, in particolare il parametro della “spesa primaria netta” che guiderà in maniera piuttosto rigida la politica di bilancio su base pluriennale, insieme alle clausole di salvaguardia su deficit e debito.

Ma in un’ora e passa di intervento, Mazzotta non ha parlato del principale disastro di finanza pubblica della storia del paese: le sue errate previsioni di spesa sul Superbonus che hanno provocato un buco di circa 150 miliardi, che condizionerà la politica di bilancio per anni.

Com’è possibile rispettare le nuove regole europee se la Rgs non sa stimare le coperture? Quali errori sono stati fatti e quali correzioni servono nelle valutazioni ex ante? Per il paese il costo del Superbonus è stato abnorme, ma se non è servito neppure a imparare la lezione il prezzo da pagare sarà ben più alto.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali