il caso

Orsini e la Confindustria schierata al 110% a favore del Superbonus

Luciano Capone

Per anni il nuovo presidente degli industriali è stato un alfiere dell'incentivo edilizio che ha sfasciato i conti pubblici: ne ha chiesto sempre di più e più a lungo. Prima di fare nuove proposte sarebbe utile un'autocritica su quelle passate

Dopo l’elezione unitaria e quasi unanime a presidente, Emanuele Orsini ha detto che la sua Confindustria vuole essere “centrale, di prospettive e piena di proposte” per “dare al governo, in Italia, e all’Europa soluzioni per la crescita delle imprese”. Prima di sapere quelle nuove, sarebbe interessante ascoltare dal neo-presidente una riflessione critica su quelle vecchie, di proposte.

Dato che, proprio in questi giorni, il ministro Giancarlo Giorgetti sta ultimando il Def con il “mal di pancia”, a causa della voragine nel bilancio prodotta dai bonus edilizi. In questi anni per la Confindustria il Superbonus è stato un vessillo, e Orsini il suo alfiere: ogni volta che un governo tentava di abbassare un pochino la bandiera, lui la sventolava più forte. Viale dell’Astronomia ha sostenuto l’incentivo al 110% sin dall’inizio, definendolo “l’unica vera misura di rilancio degli investimenti”. Eravamo nel 2020, nel pieno della crisi Covid, ma la posizione non è cambiata affatto negli anni successivi.

Quando all’inizio del 2021 il governo Draghi iniziò a mostrare i primi dubbi sull’opportunità di estendere una misura così generosa ed economicamente scriteriata, Emanuele Orsini, che era vicepresidente di Confindustria, prese una posizione netta: “Sembra che da parte del governo non ci sia la volontà di prorogare il Superbonus fino a dicembre 2023. Sarebbe un gravissimo errore perché danneggerebbe il settore delle costruzioni, che è volano dell’economia”. In realtà, con il Superbonus a volare è stato il deficit, con una spesa incontrollata che peserà sul debito per gli anni a venire.

Poco dopo, il 13 maggio 2021, in audizione alla Camera sempre nella veste di vicepresidente degli industriali, Orsini diceva che “il Superbonus è come il motorino di avviamento delle autovetture, prima mettiamo in moto, prima l’economia riparte. La misura riveste un’importanza cruciale per  cinque ragioni”. Le cinque motivazioni sono quelle che Giuseppe Conte continua a propagandare, sebbene ora in maniera più solitaria.

Orsini aveva anche una sesta ragione, per eleganza non espressa davanti agli onorevoli deputati: la sua azienda, Sistem Costruzioni, è leader nel settore dell’edilizia. In alcuni video promozionali sul Superbonus, sul canale YouTube dell’azienda, Orsini elogiava la misura dicendo che “nel Dopoguerra la ripartenza è stata grazie al mondo dell’edilizia” che ora “sprigiona il 25% del pil”. Certo, osservava Orsini, la misura che all’epoca aveva un costo stimato di una decina di miliardi, “è un debito per il paese” ma “come ha detto il presidente Draghi è un debito buono”.

 

Nell’audizione di maggio 2021, l’attuale presidente degli industriali ribadiva “l’assoluta importanza di prorogare il Superbonus almeno fino al 31 dicembre 2023”. Chiedeva anche dei correttivi, che  non avevano lo scopo di aggiustare le storture della misura bensì “di liberarne tutto il potenziale”. Ovvero di aumentare la spesa: “Il governo ha già allocato risorse per 22,26 miliardi, ci aspettiamo siano incrementate il prima possibile”. Visto il conto finale, ancora non quantificato ma superiore ai 140 miliardi, è stato abbondantemente accontentato.

Sulle stime del costo,  gli industriali sono riusciti in un’impresa impossibile: hanno fatto peggio della Ragioneria dello stato. “Secondo le stime del nostro Centro studi – diceva alla Camera l’allora vicepresidente Orsini – l’agevolazione attiverà in due anni 18,5 miliardi di spese con un impatto positivo sul pil pari a circa l’1%”.  L’impatto sul pil alla fine si è rivelato corretto, dato che l’1% in due anni è all’incirca la stessa stima dell’Ufficio parlamentare di Bilancio e del Mef, solo che il costo è arrivato a 140 miliardi: sette-otto volte più dei 18 miliardi stimati nel 2021.

In una memoria di due anni dopo, depositata alla Camera  nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui bonus edilizi, il Centro studi di Confindustria ha aggiornato le stime: l’effetto sulla crescita nel biennio 2021-22 è rimasta simile, l’1,2% del pil, ma con una spesa all’epoca di 51,3 miliardi. Anche sul lato delle entrate, le cose non sono andate benissimo: “Il gettito aggiuntivo stimato è di 2,7 miliardi nel 2021 e 9,1 miliardi nel 2022. Il Superbonus si è ripagato da solo per il 23%”. Il che vuol dire, che il Superbonus non si è ripagato da solo per il 77%: è la stessa cosa, ma il bicchiere per tre quarti vuoto rende meglio l’idea. 

 

Nonostante la consapevolezza di costi così nettamente superiori ai benefici, la Confindustria si è opposta anche al decreto del governo Meloni del febbraio 2023 per “il repentino blocco delle operazioni di sconto in fattura e cessione”, diceva in audizione la dg Francesca Mariotti. In realtà, come ha certificato l’Istat, il problema di quel decreto è che non ha bloccato proprio nulla: nel 2023 la spesa per i bonus edilizi è corsa più veloce che prima, circa 50 miliardi oltre le previsioni, con un deficit che è schizzato al 7,2% (due punti di pil in più rispetto alle stime della Nadef). E non è ancora finita. 

Insomma, prima di ascoltare le nuove proposte per la crescita, sarebbe utile da parte di Orsini e della Confindustria esprimere un giudizio postumo sul loro sostegno alla più grande follia di finanza pubblica nella storia della Repubblica. Fate presto, o fate pure con calma, ma fatelo.
 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali