Un cantiere in Italia - foto via Getty Images

L'analisi

L'Italia nel circolo vizioso del "pensiero a somma zero"

Sandro Brusco

La stagnazione rafforza l’idea che la ricchezza si ottenga a scapito degli altri, bloccando la crescita. Qualche considerazione e alcune conclusioni (non ottimistiche) per il nostro paese

Quanta parte del successo individuale è dovuto al fatto che si sottraggono risorse ad altre persone? E quanta parte invece è dovuta a studio, capacità di analisi e disponibilità a lavorare in modo indefesso per ottenere i risultati desiderati? Non aspettatevi una risposta in un articolo di giornale, e nemmeno in dozzine di saggi accademici. La risposta più sensata che si può dare è “dipende dai periodi e dai paesi”. Ci sono però alcune considerazioni analitiche che si possono fare relative all’impatto sulla crescita economica che differenti culture possono generare. Due quaderni di ricerca recentemente pubblicati dal National Bureau of Economic Research aiutano a fare luce sulla questione e propongono riflessioni molto interessanti anche per l’Italia.

 

 

L’idea che il successo individuale possa essere ottenuto solo a spese di altri è indicato nelle scienze sociali come “pensiero a somma zero”. Il concetto venne proposto negli anni Sessanta dall’antropologo George Foster, in uno studio sui villaggi poveri del Messico rurale, ed è stato poi usato più in generale. In sostanza il pensiero a somma zero afferma che la produzione totale è fissa, per cui è possibile aumentare la propria ricchezza solo sottraendo risorse ad altri
 

Il punto interessante è che esiste un’interazione tra la cultura prevalente nella società, in particolare riguardo a quante persone adottano il pensiero a somma zero, e le possibilità di crescita economica. Le società dove prevale il pensiero a somma zero sono società dove il successo individuale è considerato sospetto e indice di comportamente amorale. Se le risorse della società sono date, quando qualcuno ha più risorse deve necessariamente averle sottratte ad altri. Questo a sua volta deprime l’iniziativa individuale e la ricerca di maggiore prosperità. Anche se molti pensano che avere più risorse sia una buona cosa, ci sarà un effetto di scoraggiamento dello sforzo necessario a ottenerle, dovuto alla disapprovazione sociale.
 

È facile vedere come, nel tempo, questo possa generare un meccanismo che si autoalimenta e che limita la crescita economica. Più si diffonde il pensiero a somma zero, più le persone saranno riluttanti a intraprendere attività che portano alla crescita. Più si riduce la crescita, più diventa vero che le risorse della società sono fisse e quindi il successo individuale è spesso il risultato della sottrazione di risorse ad altri. Questo a sua volta convincerà ancora più persone che la società è ben descritta dal pensiero a somma zero, e così via. Ovviamente il meccanismo funziona anche in direzione contraria. Se, per qualche ragione, una frazione della società inizia a rifiutare il pensiero a somma zero e mostra che il progresso individuale è possibile senza danneggiare gli altri, allora altre persone si convinceranno che il pensiero a somma zero è inaccurato, innescando un processo virtuoso di crescita.
 

Il meccanismo teorico è quindi relativamente chiaro. Meno chiara è l’effettiva rilevanza empirica del meccanismo nelle due direzioni. Di quanto riduce la crescita il pensiero a somma zero? Quali esperienze individuali possono far sì che una persona sia più propensa a ritenere che sottrarre risorse agli altri sia il principale canale per il benessere individuale? Quanto è probabile che il pensiero di una persona sia influenzato dalle esperienze proprie e delle generazioni che lo hanno preceduto?
 

I due quaderni di ricerca menzionati cercano di rispondere a queste domande. In particolare il lavoro di Carvalho e altri, oltre a elaborare in modo più dettagliato il modello teorico, porta evidenza sul fatto che il pensiero a somma zero, a parità di altre condizioni, riduce il potenziale di reddito delle persone. Non discuterò qui le tecniche econometriche, ma riporterò semplicemente la conclusione che “le persone con una visione del mondo più aderente al pensiero a somma zero hanno redditi più bassi e minori risparmi... In accordo con il modello teorico, il pensiero a somma zero appare essere associato a un più basso benessere materiale”. Il pensiero a somma zero, in altre parole, danneggia le persone che vi credono, scoraggiandole dall’intraprendere azioni che potrebbero migliorare la propria condizione.
 

Il lavoro di Chinoy e altri guarda a una questione complementare. Quali sono le esperienze che fanno sì che emerga il pensiero a somma zero? L’ipotesi di partenza è che il pensiero a somma zero tende a diffondersi più facilmente in periodi e società con un basso grado di innovazione tecnologica e risorse scarse e limitate (come i villaggi del Messico rurale, ma non solo). Nelle società pre-industriali, in cui la risorsa più importante era la terra e i cambiamenti nelle tecniche di produzione molto lenti, il pensiero a somma zero risultava abbastanza naturale. Più in generale, il pensiero a somma zero tende a diffondersi in società in cui il reddito pro-capite è stagnante o cresce molto poco, come è stato il caso per l’Italia nei due-tre decenni appena passati.
 

Per verificare dal punto di vista empirico queste ipotesi, il lavoro di Chinoy e altri guarda a dati raccolti negli ultimi tre anni mediante questionari negli Stati Uniti (20.400 partecipanti su un periodo compreso tra ottobre 2020 e luglio 2023). Il questionario è estremamente articolato e fornisce informazioni sia sulle esperienze dei soggetti intervistati sia sulle esperienze dei genitori e dei nonni. Questo è importante per capire quanto il pensiero a somma zero tende a trasmettersi attraverso le generazioni e a persistere nel tempo.
 

L'indagine mostra che nelle famiglie in cui vi è stata una più forte mobilità intergenerazionale verso l’alto vi è minore propensione verso il pensiero a somma zero. Più specificamente, nelle famiglie di recente immigrazione il pensiero a somma zero tende a non attecchire. E’ d’altra parte vero che il pensiero a somma zero tende a trasmettersi attraverso generazioni. Quando una generazione subisce uno choc (per esempio un prolungato periodo con mancanza di crescita) che accresce la percentuale di persone con pensiero a somma zero, aumenta la probabilità che generazioni successive avranno una visione più a somma zero. Il questionario inoltre registra anche le opinioni su vari temi di politica pubblica. In generale, persone con una visione a somma zero sono più favorevoli a redistribuire dai ricchi ai poveri e a politiche di affirmative action a favore di donne e afroamericani. Sono anche favorevoli a politiche più restrittive sull’immigrazione. 
 

Che conclusioni si possono trarre per l’Italia? Non particolarmente ottimistiche. L’Italia soffre da tempo di mancanza di crescita. Questo ha probabilmente favorito un’ulteriore espansione del pensiero a somma zero; non ci sono dati duri, ma l’osservazione del tono di molti dibattiti politici e sociali porta a ritenere che il pensiero a somma zero sia molto diffuso, sia tra le élite culturali sia nella popolazione generale. Questo contribuisce ulteriormente alla stagnazione economica. Qualche debole speranza può derivare dall’aumento dell’immigrazione, ma in un contesto di generale stagnazione è difficile valutare quanto il contributo positivo possa essere.

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