Vladimir Putin (Ansa)

Giochi di spada

Cosa c'entra Putin con il premio Nobel John Nash

Roberto Volpi

Le teorie matematiche ispirano direttamente gli strateghi militari, che lo sappiano o no. Lo zar russo infatti ha riportato in auge i cosiddetti giochi "a somma zero": quel che vince uno lo perde l'altro, senza pieta o misericordia

Se vuoi parlare oggi di John Nash, il genio dei numeri, matematico e folle, come Sylvia Nasar titola la sua biografia dello scienziato del 1998 (Rizzoli), se ne vuoi parlare davvero senza infilarti in una disquisizione accademica tesa a spaccare il capello in quattro, ma cercando piuttosto di arrivare dritto sul bersaglio senza divagazioni, bene, allora è a Vladimir Putin che bisogna obbligatoriamente guardare.

Allo zar della nuova Russia, il dittatore che darebbe dei punti pure a Mussolini, fosse vivo, per la sua capacità oltremodo innovativa di reprimere il dissenso con veleni e omicidi. Non solo a lui, sia detto per precisare. Ma a lui, indiscutibilmente a lui, in primis. Il perché è presto detto: nella sua megalomania parossistica, e nella sua impenetrabile efferatezza di stampo asiatico (se ancora si può dire una cosa così senza esser tacciati di discriminazione geografico-continentale), il despota russo ha riportato in auge i cosiddetti “giochi di conflitto totale tra due giocatori”. Non solo strategicamente ma perfino matematicamente parlando, giacché  è possibile cogliere pure un risvolto matematico nel suo comportamento e nelle sue decisioni, nella sua strategia. Questi sono i più rudi, i più grezzi, i più squassanti e distruttivi di quella branca della matematica che va sotto il nome di “teoria dei giochi”. Quei giochi che non a caso si definiscono a somma zero: quel che vince un giocatore lo perde l’altro, e non c’è pietà o misericordia, si va avanti fino allo stremo dell’uno o dell’altro, finché c’è una possibilità di movimento. Da una parte si vince e dall’altra si perde, nell’esatta misura. E tutto è ammesso. Anche a maggior ragione sparare il primo colpo. Anche a maggior ragione invadere lo stato che ti sta accanto e che proprio per questo può essere ghermito – se non del tutto almeno in parte. Chissà se Putin e i suoi strateghi ne hanno coscienza, ma è a quella strategia che hanno ispirato la loro azione. Alla strategia che viene direttamente dalla teoria dei giochi.


Gli strateghi militari, non gli economisti, e neppure i matematici, furono in effetti i primi a buttarsi nella lettura di “The Theory of Games and Economic Behavior” di John von Neumann e Oskar Morgenstern, uscito a Princeton, regno indiscusso della matematica mondiale, per i tipi della Princeton University Press nel 1944. Prodotto quantomai accademico e ufficiale, dunque, di due professoroni, di cui solo il primo un matematico, piuttosto un filosofo il secondo, considerati universalmente, specialmente von Neumann, due geni. John von Neumann, profugo ungherese naturalizzato americano, antinazista viscerale ed ebreo altrettanto, contribuì al progetto Manhattan e seguì di persona gli esperimenti nucleari che sfociarono nella bomba H lanciata sulle isole Marshall nel 1952. I suoi detrattori, una coorte, vogliono che sia morto appena cinque anni dopo di tumore a poco più di cinquant’anni proprio a seguito delle radiazioni dei test nucleari e che a lui si ispirasse Kubrick per il suo personaggio del dottor Stranamore, che cavalca la bomba atomica ghignando e sventolando il cappellone da cowboy mentre va a schiantarsi, vaporizzandosi al suolo. John von Neumann fu forse il matematico più grande dei suoi tempi e aderì alla proposta di Morgenstern di scrivere un trattato che dimostrasse come la teoria dei giochi fosse il fondamento, la base da cui non si poteva prescindere, di ogni decisione economica razionale.

In effetti si sostiene che le mille e passa pagine dell’imponente trattato in chiave esplicitamente anti keynesiana fossero state scritte pressoché al gran completo da lui, ma Morgenstern ci mise forse l’idea principale. Stabilito che le previsioni economiche hanno, diversamente da quasi tutti gli altri tipi di previsioni, da quelle astronomiche a quelle metereologiche, la capacità di cambiare gli esiti degli eventi, Morgenstern attribuiva grande importanza all’interdipendenza tra gli attori economici in un tempo in cui gli economisti tendevano piuttosto a ignorare questa caratteristica e a esaltare il comportamento dei singoli, sulle ali di una trionfante psicologia individuale. Interdipendenza che sottende a tutte le strategie della teoria dei giochi proposte dagli autori: da quelli a due soli giocatori – la parte meglio sviluppata del trattato – a quelli con più di due giocatori. Quest’ultima, a detta di John Nash  – ecco che appare il nostro poco più che ventenne – invece era incompleta e incapace di dimostrare che esistesse una soluzione a questo tipo di giochi. John Nash non si fece certo pregare ed estese la sua critica anche all’ultima parte del trattato, quella che si occupava di giochi a somma non zero nei quali le poste tra chi vince e chi perde non si compensano: poco più di un’appendice gravemente deficitaria, a suo dire, “un vero peccato perché sono proprio questi giochi che hanno le maggiori probabilità di rivelarsi utili nella pratica”. Era partita la corsa di un giovanissimo Nash a innovare dalle fondamenta la teoria dei giochi quand’essa si era appena conquistata l’attenzione mondiale.


Per la verità qui le cose perdono linearità, si complicano, al di là di quel che recitano saggi e biografie. E non per la follia – gravissima forma di schizofrenia – di cui Nash fu vittima per trent’anni almeno, della quale non diremo, essendo entrata nel mito da quando Ron Howard nel 2001 ne trasse il film “A beautiful mind”, che raccolse Oscar e Golden Globe a profusione. Le cose si complicano di non detti, per la precisione. Punto primo: quando Nash scrisse il suo articolo, pubblicato l’anno successivo in una mezza dozzina di pagine della rivista Econometrica, è il 1949, ha ventun anni, è da poco arrivato a Princeton, la sua preparazione in economia si avvale di un unico corso semestrale, dire che si tratta di un neofita è perfino un’esagerazione. Eppure – punto secondo – va a infilarsi spedito, lui matematico sottilissimo, nel problema per eccellenza, costantemente discusso senza lasciare intravedere una possibile conclusione, dell’analisi economica: quello della contrattazione. E lo fa – punto terzo – con un articolo concentrato peggio di un brodo ristretto che resta come uno dei grandi classici delle scienze economiche: “The Bargaining Problem” – il problema della contrattazione, appunto, ovverosia il problema che sta alla base dello scambio: origine e radice ultima di ogni economia. Oltretutto innovando dalle fondamenta – e con questo siamo al quarto punto – la “teoria dei giochi”, appena formalizzata da quel genio indiscusso della matematica che risponde al nome di John von Neumann. Ed ecco allora sorgere la domanda: ma non è forse un po’ troppo? Non c’è qualcosa che stride in tutto questo concatenarsi di eccezionalità o eccezionalismi che dir si voglia?

In effetti c’è chi pensa che John Nash non avesse piena coscienza di quel che andava facendo. Che non l’avesse nemmeno il professore con cui fece subito dopo la tesi, ovviamente sullo stesso tema dell’articolo da poco pubblicato. Che non l’avesse praticamente nessuno, quella coscienza, anche in relazione al fatto che l’autore era un giovincello di grandi speranze, è vero, ma pur sempre alle primissime armi. Vorrei a questo riguardo anticipare la conclusione: John Forbes Nash ottenne il Nobel per l’Economia solo nel 1994, in compagnia di altri due studiosi di cui, sarà pure ingiusto ma è così, nessuno ricorda il nome. A poco meno di mezzo secolo di distanza dal suo lavoro, poche pagine, pubblicato su Econometrica. Un Nobel non così nobile, quello per l’Economia, di seconda linea rispetto a quelli per la Fisica o per la Medicina, arrivato una vita dopo e attribuitogli in nutrita compagnia. Quando John Nash, dopo una peregrinazione di decenni per manicomi e case di cura, riemerge finalmente e stabilmente nel mondo dei sani di mente. Non dà forse l’idea, questo stesso Nobel, di un ritardo incommensurabile nel capire, da parte dello stesso mondo accademico e scientifico, la novità che John Nash rappresentò per quella branca della matematica ch’è la teoria dei giochi e l’impulso che a questa teoria impresse?


D’accordo, non sono questioni da dirimere in un articolo non specialistico come quello che state leggendo. Ma se le abbiamo poste è perché si intende sottolineare quello che proprio gli scienziati per primi non vogliono sentirsi dire: che spesso le scoperte scientifiche nascono per caso, tutto d’un tratto, germinano senza che niente le lasci prevedere, prima ancora che il terreno sia stato concimato.  John Forbes Nash aveva piena consapevolezza dell’innovazione delle sue pagine? Se sì, e si ha motivo di credere che fosse così, bene. Ma a maggior ragione malissimo, visto che si è atteso mezzo secolo a dargli il Nobel. Ed eccoci velocemente alle due conclusioni, poste sotto forma di domande. La prima: dove sta, riassunta in parole povere, l’innovazione che Nash apportò alla teoria dei giochi? La seconda: possiamo abbandonare Vladimir Putin alla sua megalomania guerrafondaia o non piuttosto ritornarci per puntualizzare il suo agire imperialista – e magari arrivare così ancor meglio al cuore dell’innovazione di Nash?


La biografa di Nash riguardo alla prima conclusione è solo all’apparenza troppo semplice e in quanto tale poco scientifica. Dice dunque Sylvia Nasar: “Se si legge oggi il saggio di Nash ciò che più colpisce è l’originalità. Le idee sembrano nascere dal nulla. Quest’impressione ha un fondamento. Nash arrivò alla sua idea essenziale – quella secondo cui i termini del contratto [della contrattazione] dipendevano da una combinazione delle alternative a disposizione dei negoziatori e dei benefici potenziali derivanti dal fatto di stringere un patto – quando era uno studente al Carnegie Tech, cioè prima di arrivare a Princeton, prima di cominciare a frequentare il seminario di Tucker sulla teoria dei giochi e prima di aver letto il libro di von Neumann e Morgenstern. Quell’idea lo colpì mentre assisteva all’unico corso di scienze dell’economia che avrebbe mai frequentato”. Quell’idea portava, peraltro, al fondamentale equilibrio di Nash: quell’equilibrio che si verifica allorquando alla luce dell’insieme delle strategie messe in campo dai vari attori nessuno di questi ha interesse a cambiare la propria. Nessun attore ha, detto più specificamente, interesse a essere l’unico a cambiare strategia. Per essere ancora più chiari: un singolo attore potrebbe pensare in effetti di muoversi da quella posizione di equilibrio per trarne un maggior vantaggio individuale, personale, rispetto a quello di cui gode in quella posizione, e la cosa è in sé possibile, naturalmente, ma a prezzo di scombinare quell’equilibrio introducendo pericolosi fattori di instabilità i cui effetti non sono prevedibili, non certo nella loro globalità – e che potrebbero ritorcersi contro lo stesso attore che ha inteso “turbare l’equilibrio”.   


Turbare l’equilibrio. Si può sempre turbare un equilibrio, ci mancherebbe. Dipende da come lo si fa. E pure dal perché lo si fa. Se un equilibrio apporta vantaggi a tutti gli attori, specialmente se si tratta di attori, e dunque anche di scenari geopolitici e militari, prima ancora che non specificamente economici, è piuttosto da preservare che da sconvolgere. Se si punta a sconvolgerlo è ovviamente perché, proprio muovendosi contro tutti gli altri attori, rispetto ai quali ci si era pur messi in un equilibrio di strategie e vantaggi, si mira a imporre un nuovo equilibrio. Il punto è vedere se tutt’altro equilibrio è possibile come conseguenza delle mosse perfettamente unilaterali di un attore dell’equilibrio precedente. Nell’equilibrio di Nash nessun attore ha interesse a essere il solo a cambiare la propria strategia; ma ciò vuole anche significare che quell’equilibrio può essere modificato solo per via consensuale, con una nuova contrattazione e un nuovo contratto.

Propendo a credere che tutto questo Putin lo sappia benissimo. E ciononostante ha inteso forzare. E se lo ha fatto è perché alla contrattazione e al contratto ha preferito un cambiamento di strategia fondato sulla forza, l’invasione, la guerra all’Ucraina. Se tutti gli altri attori presenti sulla scena tengono botta, questo dice l’equilibrio di Nash, e gli si mettono contro, egli non ha da solo speranza di uscirne e il suo violento strappo di strategia gli si ritorcerà contro perché nessun attore ha interesse a essere l’unico a cambiare strategia. Ma questo solo se gli altri attori lo isolano e lo combattono. Putin non dà l’idea di essere solo. Qui è il punto. E qui propriamente Nash ci abbandona. Perché se nel cambiamento di strategia non si è soli, tutto può succedere, anche che si approdi al peggiore degli equilibri.


È lo stesso calcolo che ha fatto Hamas col pogrom del 7 ottobre. Quell’Hamas che sembra ancor meno isolata di Putin. Anche Hamas in certo senso contro Nash.