Logo sede di Confindustria, Roma (ANSA/GIUSEPPE LAMI) 

il silenzio del mimit

Salvare Confindustria Moda. Il patto delle quattro dame

Fabiana Giacomotti

La filiera pelle, governata da un gruppo agguerritissimo di imprenditrici, progetta di serrare le fila, a prescindere dalla diaspora sulla quale il ministro Urso non ha dato risposte e da qualche incognita sull’uso della denominazione

Se Confindustria Moda, l’unica lobby del settore, riuscirà a sopravvivere all’uscita di SMI (l’associazione dei tessutai, è accaduto un mese fa, è seguita interrogazione parlamentare di Ivan Scalfarotto che ne aveva promosso la nascita ai tempi del governo Renzi) e a quella molto più recente di Anfao (l’associazione degli occhialai, che tanto moda non sarebbero nemmeno nel processo produttivo, semmai più design), sarà per la volontà, chiamatela pure ostinazione ma anche capacità di fare sistema e di guardare lontano, di quattro signore che governano le rispettive filiere da decenni: Fulvia Bacchi, ceo di Lineapelle e direttrice generale di Unic, Giovanna Ceolini, presidente di Micam e di Assocalzaturifici, prossima alle elezioni, Elena Salvaneschi, amministratrice delegata di TheOneMilano, nato nel 2017 dalla felice intuizione di fondere Mipap (Milano Pret-à-Porter) e Mifur, il Salone Internazionale della pellicceria e della pelle e specializzato nei capispalla di aziende virtuose e sottoposte a standard rigorosi sull’utilizzo dei materiali e la sostenibilità delle produzioni, e infine Claudia Sequi, presidente di Mipel e di Assopellettieri.

 

Poche ore prima dell’apertura dei saloni a Rho Fiera Milano e dell’arrivo del ministro delle imprese e del Made in Italy Adolfo Urso che, pur solitamente verboso, fino a oggi non ha risposto ad alcuna fra le osservazioni che sono state mosse sulla frattura in seno a Confindustria Moda o tanto meno all’interrogazione, si sono riunite per valutare “the pros and cons” di un eventuale scioglimento della confederazione, che forse non avrà sviluppato tutte le sinergie e le azioni di lobby che l’allora ministro dell’economia Carlo Calenda si aspettava, ma non di meno ha lavorato benissimo sulla formazione e sulla ricerca, e hanno concordato sulla necessità di salvaguardarla.

 

Anche perché, uscita la filiera tessile, quella dell’occhialeria e, già mesi fa, gli orafi che a loro volta non condividono granché con le politiche della moda, (a voler essere onesti, anche la creatura di Calenda aveva qualche difetto d’origine) la Confindustria Moda che si profila oggi è una confederazione di produttori di accessori in pelle, con vari derivati e associazioni che le affiancano, per esempio Cuoio di Toscana. Insieme, generano un fatturato rilevante e un network potentissimo11 mila imprese dei settori calzaturiero, pelletteria, concia e pellicceria, che generano un fatturato preconsuntivo stimato 2023 di 33 miliardi di euro, in linea con quello registrato nel 2022 e in progresso rispetto a quello del 2021 che era pari a 29 miliardi di euro, a testimonianza di un consolidamento dell’industria dopo il recupero post pandemia e anche di un progressivo recupero della produzione interna. Nel periodo gennaio-ottobre 2023, l’export ha superato infatti i 22,8 miliardi di euro (+1,1 per cento rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente) mentre l’import è diminuito a 10,5 miliardi (-0,4 per cento rispetto ai primi 10 mesi 2022). Ma in particolare va segnalato il crollo dell’importazione di materie prime e semilavorati dalla Cina (-23 per cento), Vietnam (-19,8 per cento), India (-9,1 per cento), che testimoniano un processo di reshoring e nearshoring già ben avviato e che si somma a una crescita dell’import da paesi Intra UE 27 post Brexit del 14,9 per cento rispetto ai primi 10 mesi del 2022.

 

Dunque, se la “quinta dama” del sistema, la presidente di Confindustria Moda Annarita Pilotti, che nelle scorse settimane ha sostituito Ercole Botto Poala, costretto alle dimissioni in quanto rappresentante di SMI, dice che la filiera della pelle contribuisce “in maniera significativa” alla bilancia commerciale italiana, ha certamente ragione, così come ha ragione quando fa notare a Urso come le piccole e medie imprese che formano questa filiera e che guidano il processo di reshoring “hanno difficoltà a competere sui mercati internazionali” anche a causa “del rapporto tra costo del lavoro e retribuzioni nette” e alla difficoltà di accesso al credito”.

 

Se le quattro dame più una riusciranno nell’intento di salvaguardare Confindustria Moda e di svilupparne il peso politico dipenderà sia da fattori endogeni (principalmente, il budget), sia dalla volontà di viale dell’Astronomia di permettere loro di mantenere la denominazione. Perché non è detto che SMI non intenda usarla per sé, in relazione alla filiera tessile. Come sempre in Italia, si litiga e si polverizzano le strategie collettive, cercando però e comunque di mantenerne i vantaggi.