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Lo scaffale di Tria

Non è la globalizzazione a generare disuguaglianze. È la malapolitica 

Giovanni Tria

Il risultato per appiattirle è il principio di compensazione. Lo scriveva l'economista keynesiano (ma non ideologico) Jean-Paul Fitoussi: "Senza questo principio il paese si trova di fronte a un’insostenibile instabilità politica"

"Non è tanto che la concorrenza dei paesi emergenti sia stata sleale (cosa non del tutto falsa) quanto che, colti da un inspiegabile vuoto di memoria, i governi dei paesi ricchi hanno dimenticato il principio di compensazione. Che potremmo riassumere così: qualsiasi decisione politica (che non sia giustificata dalla preoccupazione del benessere sociale), i cui effetti fanno guadagnare alcuni e perdere altri, deve assicurarsi che i guadagni degli uni siano sufficienti a compensare le perdite degli altri e che a questo siano effettivamente destinati. Questo principio, il cosiddetto criterio di Kaldor-Hicks, s'iscrive nell’economia del benessere e appare evidente. Come poter altrimenti giustificare scelte che fanno guadagnare alcuni a spese di altri, in particolare quelli svantaggiati?".

Lo scriveva Jean-Paul Fitoussi nel 2019 (La Neolingua dell’economia. Ovvero come dire a un malato che è in buona salute, Giulio Einaudi Editore), prima della crisi pandemica, osservando che l’applicazione del principio di compensazione avrebbe “consentito all’insieme della società di progredire, in quanto i guadagni [della globalizzazione, ndr] sono in generale… superiori alle perdite. Se così non è, il risultato netto della globalizzazione diventa negativo e, in assenza di misure correttrici in senso redistributivo, il paese si trova di fronte a un’insostenibile instabilità politica”. Instabilità evidente alimentata dalle proteste dei “perdenti” nella competizione globale, cioè dei lavoratori meno qualificati e di parte delle classi medie. Fitoussi, economista keynesiano non ideologico, poneva un problema che diviene oggi sempre più pressante. Ciò che Fitoussi segnala, considerando anche la storia europea del secolo scorso, è che l’apertura dei mercati e il libero scambio aumentano la crescita economica, in altri termini aumentano la torta globale, ma non a vantaggio di tutti. Aumentano le disuguaglianze e da ciò nasce l’instabilità politica. L’errore commesso, per colpa o per dolo, è stato quello di non capire per troppo tempo che l’apertura alla concorrenza internazionale richiedeva protezione sociale, il principio di compensazione, e non la distruzione del welfare state e la compressione dei salari con la motivazione che per competere si dovevano tagliare i costi nei paesi avanzati. “I governi dispongono essenzialmente di due strumenti per assicurare la protezione: o istituiscono uno stato sociale (con protezioni sociali) o il protezionismo. Entrambe le opzioni sono state provate nel corso del Ventesimo secolo, con fortune alterne.

L’aumento del protezionismo provocato dalla Prima guerra mondiale ha portato ai disastri della prima metà del secolo, mentre nella seconda metà l’espansione degli stati sociali ha accompagnato l’internazionalizzazione delle economie e il progressivo smantellamento delle barriere doganali”. E oggi cosa vediamo? La globalizzazione ha portato decenni di crescita senza inflazione nei paesi avanzati e in quelli emergenti. Questi ultimi hanno esteso in gran parte i benefici alla loro popolazione che viveva sotto la soglia della povertà, investendo massicciamente in istruzione, infrastrutture e tecnologie. I paesi avanzati hanno lasciato aumentare le disuguaglianze. Ma questo non è un risultato inevitabile della globalizzazione, cioè dell’apertura al libero commercio internazionale. È il risultato di cattive politiche, soprattutto in Europa dove, per competere, si sono tagliate le spese per investimenti e protezione sociale. E oggi torna la soluzione del protezionismo, della de-globalizzazione, delle barriere al libero scambio internazionale che la propaganda dei governi, a fronte del loro fallimento, tenta di giustificare come percorso necessario per proteggere i lavoratori del proprio paese. In realtà questa è la risposta sbagliata. A fronte di un risultato inevitabile di minor crescita e di aumento dei costi di produzione, è illusorio che in un mondo impoverito siano i più svantaggiati a goderne. Se la torta si restringe, non ci sarà maggiore equità nelle porzioni, e la rabbia sociale rischia di spingere i governi verso maggiori conflitti esterni. È la storia della prima metà dello scorso secolo. Il mondo oggi è totalmente cambiato, ma le nuove tecnologie non lo rendono più sicuro. Sta alla saggezza dei governi percorrere la strada alternativa, quella della compensazione. Non è troppo tardi. 

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