L'intervista

“Ero perplesso sul memorandum, ma l'Italia sviluppi i rapporti economici con la Cina”. Parla Tria

Luciano Capone

"L'accordo sulla Via della seta non era gradito agli Usa, il nostro governo non era coordinato. Ora Meloni si allinea al G7, ma senza rovinare le relazioni commerciali con Pechino. Il decoupling non è possibile, ma non è neppure auspicabile", dice l'ex ministro dell'Economia

“La scelta del governo Meloni è dovuta evidentemente alla posizione particolare dell’Italia di fronte alle tensioni geopolitiche tra gli Stati Uniti e la Cina”. Giovanni Tria è l’ex ministro dell’Economia del governo Conte, quello che firmò il memorandum sulla Via della Seta con la Cina, e quindi ne conosce bene le implicazioni politiche. “L’Italia si vuole riallineare alla posizione del G7, i cui paesi hanno comunque ampie relazioni commerciali con la Cina, molto più forti e stretti rispetto all’Italia, ma comunque si ritiene che questo accordo abbia un valore simbolico. E infatti tale è rimasto, visto che in questi anni non sono state sviluppate le sue potenzialità”.

 

I dati dei quasi cinque anni successivi alla firma del memorandum sulla Via della Seta mostrano che non c’è stato un significativo aumento dell’interscambio con la Cina, ma soprattutto che il deficit commerciale italiano con Pechino è più che raddoppiato. Dalle modalità con cui Giorgia Meloni ha preparato il mancato rinnovo, dialogando con le autorità cinesi e senza darne grande pubblicità, è evidente che l’intenzione di dare un segnale politico agli alleati ma anche di non farlo apparire un atto ostile nei confronti di Xi Jinping. “Mi sembra l’interpretazione corretta. In altre occasioni decisioni di alcuni paesi che potessero sembrare strappi diplomatici hanno avuto una risposta”, dice Tria che conosce da decenni la Cina ed è anche, unico occidentale, consigliere indipendente nel cda della Bank of China. “Stavolta la posizione di Pechino sembra di essere di pieno rispetto, non vedo alcuna volontà di incrinare i rapporti culturali, commerciali e di cooperazione con l’Italia. Sarebbe un errore anche da parte nostra, perché spesso ho visto timore a sviluppare questi rapporti. Dobbiamo evitare di fare la figura dell’ultimo giapponese sull’isola, visto che dopo l’incontro di San Francisco Stati Uniti e Cina si sono entrambi resi conto che occorre cooperare per la stabilità economica globale”.

 

Uscire dalla Via della Seta non deve quindi significare rompere i rapporti con la Cina. “Credo sia la posizione del governo, questo atto non deve significare un indebolimento dei rapporti tra Italia e Cina, che proseguiranno e si rafforzeranno mediante altri strumenti. Come, d’altronde, fanno meglio di noi gli altri paesi europei come la Francia e la Germania”. Lei all’epoca era ministro dell’Economia, parlò di “una tempesta in un bicchier d’acqua”, come vedeva la firma di quel memorandum? “Allora fui un poco perplesso. Era una cosa non gradita agli americani, ma non era solo questo il problema. Questi accordi servono quando c’è una capacità di portarli avanti, ma per farlo bisogna costruire progetti, una struttura di dialogo costante tra amministrazioni. Invece quello era un memorandum solo simbolico”.

 

Conta anche il contesto. All’epoca il governo Conte faceva molti incontri in Cina, a volte con delegazioni separate e con esponenti del governo che sembravano avere un’agenda specifica. C’erano timori degli alleati sulla politica estera. “Certamente era un governo non molto coordinato, c’era anche una posizione sul Venezuela molto discutibile che preoccupava gli americani. La vera questione, però, era che quello era un momento in cui la Cina approvava leggi sugli investimenti internazionali e sarebbe stato importante sviluppare accordi. Ne firmai uno sulla doppia tassazione, molto utile per le imprese italiane che erano svantaggiate rispetto a quelle di altri paesi come la Francia e il Regno Unito. Purtroppo non è stato ancora ratificato dal Parlamento, non credo per opposizione politica ma perché è una questione molto tecnica a cui non si dà attenzione. Forse più che delle cose simboliche bisognerebbe occuparsi di quelle più concrete”.  All’epoca nel suo governo c’era chi era molto focalizzato sull’export delle arance. “Meglio dimenticare”.

 

Il mancato rinnovo del memorandum non va quindi visto nella logica del decoupling tra Occidente e Cina. “Non credo che il decoupling sia possibile, visto quanto sono intrecciate le catene produttive globali. Ma credo anche che non sia auspicabile: porterebbe aumento dei costi di produzione, rallentamento della crescita e inflazione. Se abbiamo avuto tre decenni di crescita senza inflazione lo dobbiamo anche a questa forma di globalizzazione. E’ vero che la Cina è cambiata, ma i problemi vanno affrontati con soluzioni e regole condivise”.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali