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l'analisi

L'età dell'oro del lavoro che i sindacati non vogliono vedere

Stefano Cingolani

Aziende flessibili (Luxottica). Epoca speciale  (Economist). Numeri super (Istat). Oltre Landini c’è molto di più

Sostiene l’Istat: l’occupazione continua a crescere, a ottobre ha raggiunto il 61,8 per cento un record storico. Certo, siamo lontani dalla media Ue (68 per cento), anche il tasso di disoccupazione è ancora al 7,8 per cento e quello giovanile resta troppo alto (24,7 per cento), tuttavia l’Italia parte dal basso, la risalita è lunga e faticosa, ma non si è fermata nemmeno con il colpo di freno al prodotto lordo, l’inflazione e l’ondata delle tante incertezze. Ancor più notevole è che aumentano i posti di lavoro a tempo indeterminato (+455 mila rispetto a un anno prima) e si riducono quelli a termine (-64 mila). Allora che cosa racconta Maurizio Landini? E cosa raccontano i firmatari del referendum per ripristinare l’articolo 18 (tra i quali per un periodo anche Elly Schlein segretaria del Pd che lo ha abolito), se la rimonta dell’occupazione è incominciata proprio dopo l’approvazione del vituperato Jobs Act? 

Facciamo parlare ancora l’Istat. Nel febbraio del 2014 quando si è insediato il governo Renzi gli occupati erano 22 milioni, nel 2016 quando Renzi è caduto e la riforma del mercato del lavoro ha cominciato a manifestare i propri effetti, c’era quasi un milione di posti di lavoro in più. Oggi ci sono 23 milioni 694 mila occupati, nonostante la pandemia, la crisi energetica, l’inflazione, l’aumento dei tassi d’interesse e il conseguente rallentamento del ciclo economico. Dove sta il declino?

Il lavoro è stato studiato, sezionato, calcolato; cosa non è stato fatto per capire quell’attività umana che è processo di formazione della coscienza dell’individuo e del suo rapporto con l’insieme della società, come sosteneva Hegel che conosceva Adam Smith. Ma, nonostante filosofi, economisti, sociologi e sindacalisti, il lavoro continua a stupirci. E’ diventato quasi senso comune il crollo dell’etica del lavoro nella società fluida, fino al suo rifiuto soprattutto tra i giovani. Nell’ultimo numero della rivista il Mulino, dedicato alla “giovane Italia”, Sonia Bertolini e Valentina Goglio passano in rassegna numerose analisi che percorrono un arco che va dal 2008 al 2023, in particolare quella del Centro Luigi Bobbio dell’Università di Torino. Il lavoro rimane l’attività più importante per il 73 per cento degli adulti, meno per i giovani (61 per cento); entrambe le percentuali scendono rispetto a 15 anni prima, ma “una tale differenza non è sufficiente a sostenere che i giovani abbiano un atteggiamento di rifiuto del lavoro”, scrivono le due sociologhe. Il rapporto Censis presentato ieri va in senso opposto perché l’87 per cento degli intervistati risponde che “fare del lavoro il centro della propria attività è un errore”, quindi “il lavoro sembra aver perso il suo significato più profondo, come riferimento identitario” a favore di una “centralità delle piccole cose”. Secondo l’Economist, invece, siamo addirittura entrati in una “età dell’oro” per i lavoratori. “A mano a mano che le società invecchiano, il lavoro diventa più scarso e meglio ricompensato, specialmente quello manuale difficile da rimpiazzare con la tecnologia. I governi spendono molto e tengono calda l’economia, sostengono la domanda per salari più alti, e continueranno a far così. L’intelligenza artificiale sta già dando ai lavoratori, in particolare a quelli meno competenti, una spinta alla produttività che porterà anch’essa salari più elevati”. Altro che fine del lavoro, come blateravano i guru pentastellati, altro che redditi universali: salari, salari e ancora salari. Un monito anche per i “patron”: chi li tiene bassi fa un danno a se stesso oltre che alla società, Henry Ford aveva ragione. Sono elucubrazioni per paesi ricchi? Non solo. La Cina che ancora ricca non è se guardiamo al suo reddito pro capite, sta già sperimentando una riduzione dell’età lavorativa, comincia a venir meno una delle risorse che hanno alimentato il suo straordinario boom, cioè la forza lavoro in abbondanza e a basso prezzo; dunque il costo si sta rivalutando anche là e con esso aumenta il valore del lavoro. 

Chi ha ragione? La contraddizione può essere ricomposta se ci si chiede quale lavoro, come lavorare e quanto, soprattutto che rapporto stabilire oggi tra il lavoro e il resto della propria vita. Accade nei paesi maturi come nei paesi a industrializzazione tardiva. La Francia ha anticipato tutti da un quarto di secolo con la settimana lavorativa di 35 ore che non ha fatto cadere né la crescita, né i salari, né la produttività anche perché si è tradotta per lo più in aumento delle ferie. Un po’ come ha deciso di fare Luxottica che si sta integrando con la francese Essilor: un pacchetto di 20 venerdì liberi per un totale di 46 giorni di ferie, più degli attuali 31 giorni tra ferie vere e proprie e permessi, a parità di salario. Un passo avanti importante anche nella manifattura dopo l’accordo raggiunto in Intesa Sanpaolo che fa da battistrada: quattro giorni alla settimana da nove ore lavorative, ovviamente senza ridurre la retribuzione. Riguarda gran parte dei suoi 74 mila dipendenti e s’accompagna all’aumento su base volontaria dell’orario flessibile da casa. Vita e lavoro, una dialettica nuova, è questa la nuova frontiera dell’occupazione.

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