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L'INTERVISTA

Perché la svendita globale di titoli di stato può far male all'Italia

Mariarosaria Marchesano

I mercati hanno messo nel mirino i debiti pubblici, mentre i rendimenti sfiorano soglie che non si vedevano da tempo. "Non esistono complotti, gli investitori si stanno semplicemente stancando di fare i guardiani dei conti e chiedono maggiore responsabilità ai policy maker", ci dice l'economista Riccardo Trezzi

Perché gli investitori internazionali stanno vendendo a grandi mani titoli di stato? E’ un vero “sell off”, una svendita che sta avvenendo a livello globale, dall’Europa agli Stati Uniti, e c’è il rischio che l’Italia ne venga travolta. “E’ un momento preoccupante, i mercati hanno messo nel mirino i debiti pubblici perché hanno perso la pazienza”, commenta al telefono da New York Riccardo Trezzi, economista con esperienze alla Federal Reserve e alla Bce e oggi consulente di fondi di investimento globali, dei quali sta toccando con mano il nervosismo di questi giorni. “Si è creato un connubio pericoloso tra la prospettiva che i  tassi d’interesse restino elevati a lungo e politiche di spesa dei governi fuori controllo”. A New York sono le cinque del mattino, ma Trezzi è un fiume in piena al telefono perché, ammette, si dorme poco dopo tante riunioni con gli investitori, prima a Londra e poi a Manhattan, in cui si comincia a sentire parlare di “fiscal dominance”, che è quella condizione economica che si verifica quando i livelli di deficit e debito di uno o più paesi sono sufficientemente elevati da rendere  la politica monetaria inefficace nel controllo dell’inflazione. “Molti investitori – aggiunge Trezzi – hanno interpretato le ultime dichiarazioni di Fed e Bce sull’intenzione di mantenere i tassi sufficientemente elevati finché necessario (l’espressione coniata è higher for longer) come una sostanziale incapacità di riportare l’inflazione al target del 2 per cento. Cioè di finire il lavoro che hanno cominciato. E questo anche perché temono di esporre i paesi più fragili, come l’Italia è considerata in Europa. Così, di fronte alla Nadef del governo Meloni che non offre spunti di disciplina fiscale e di fronte al deficit degli Stati Uniti al 6 per cento, livello mai raggiunto nella storia al di fuori di periodi bellici e di recessione, hanno deciso che è arrivato il momento di lanciare un segnale”. 

Che cosa vuol dire esattamente? E’ in atto uno sciopero degli acquirenti del debito pubblico globale? “I mercati attendono un messaggio chiaro sia dalle banche centrali sia dalle autorità fiscali. Dalle prime vorrebbero sentirsi dire, paradossalmente, che alzeranno ancora i tassi perché questo sarebbe la prova che non temono di andare fino in fondo nella lotta all’inflazione che, una volta sconfitta, apre la strada ai tagli e a una politica espansiva. E dagli stati più indebitati si attendono un consolidamento fiscale, cioè manovre inequivocabilmente orientate a ridurre i livelli di deficit. Ma al momento non si vede nulla di tutto questo mentre si vede crescere il costo dell’indebitamento degli stati”. 

In effetti, i rendimenti dei titoli del tesoro americano, sia trentennali che decennali sono saliti ai massimi del 2007, vale a dire prima che scoppiasse la grande crisi finanziaria, quelli dei btp a dieci anni hanno superato la soglia del 5 per cento, il massimo dal 2012, ma anche il Bund tedesco ha raggiunto il 3 per cento e i Gilt britannici hanno sforato il 5 per cento questa settimana, il livello più alto dalla crisi del governo di Liz Truss. “Le vendite stanno colpendo un po’ tutti i bond sovrani – prosegue Trezzi – perché, per dirla senza troppo fair play, si teme una italianizzazione della politica fiscale americana e globale”. Però, il debito degli Stati Uniti, che in rapporto al pil sta in effetti raggiungendo il livello dell’Italia, segue da anni una traiettoria di crescita senza che questo abbia mai minimamente preoccupato i mercati che si sono sempre concentrati sui rischi di paesi periferici europei. “Il caos al Congresso non ha aiutato a migliorare la percezione degli investitori, ma c’è da dire che negli ultimi anni la loro sensibilità sul tema della disciplina fiscale è cresciuta come dimostra quanto accaduto alla ex premier britannica Liz Truss, che ha tentato di tagliare le tasse senza dimostrare di avere sufficienti coperture per farlo. Quell’episodio è molto significativo, non esistono complotti, gli investitori si stanno semplicemente stancando di fare i guardiani dei conti pubblici e chiedono maggiore responsabilità ai policy maker”. 

In tutto questo come se la caverà l’Italia, dove lo spread corre ormai verso i 200 punti base? “Se il rendimento del decennale dal 5 per cento arrivasse al 6 per cento, sarebbe un livello insostenibile per i conti pubblici del nostro paese”, osserva Trezzi. Tra gli investitori finanziari c’è anche chi è un po’ più ottimista, come  Padhraic Garvey, amministratore delegato di Ing, il quale ha spiegato al Financial Times che “c’è un po’ di angoscia riguardo alle proiezioni del deficit di bilancio dell’Italia”, ma di non pensare che sia “una crisi urlante”. 

Nel complesso, però, il sentiment dei mercati finanziari nei confronti del governo Meloni appare mutato rispetto a qualche tempo fa. C’è un prima e un dopo. Nel mezzo, un’economia in contrazione nel terzo trimestre, il tentativo in parte rientrato di tassare le banche e il peggioramento delle prospettive di bilancio. Per come ragionano gli investitori obbligazionari sono tutti rischi che si aggiungono e che valgono la richiesta di rendimenti più elevati.

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