Servire il debito, una prospettiva difficile per gli italiani

Luciano Capone

Guardare allo spread è illusorio quando i tassi sono alti. La Nadef mostra che l'Italia ha la spesa per interessi più alta d’Europa e pure in crescita: da 78 miliardi nel 2023 a 105 miliardi nel 2026 (4,6% del pil). Serve un piano per abbattere il debito, ma non è una priorità per nessuna forza politica

“Uno spread a 200 punti non è preoccupante”, ha detto il sottosegretario all’Economia Federico Freni, intervistato da Simone Spetia su Radio 24. “Mi preoccuperò se lo spread dovesse salire, ma non credo che avverrà, al massimo toccato negli ultimi anni, quindi 340-350 punti del 2018” ha aggiunto Freni. Il riferimento temporale è al primo governo Conte, quando lo spread schizzò due volte all’insù, in primavera alla notizia della nascita del governo di Lega e M5s e in autunno con la prima manovra gialloverde. Probabilmente ora non ci sono fiammate del genere perché a parlare di economia per conto della Lega ci sono persone equilibrate come il ministro Giancarlo Giorgetti e Freni, anziché i no euro Borghi e Bagnai.

 

Ma il ragionamento del sottosegretario leghista rischia comunque di portarlo fuori strada, perché guarda all’indicatore sbagliato. Ciò che dovrebbe tenere sott’occhio il governo non è lo spread, ma il rendimento: il costo del debito italiano e non la differenza rispetto a quello tedesco. Perché quello del 2018, e degli ultimi dieci anni prima del ritorno dell’inflazione, era un altro mondo. L’Europa era a rischio deflazione, i tassi erano a zero, la Bce inondava il mercato di liquidità e faceva incetta di titoli, il rendimento del bund tedesco era prossimo allo zero e per lunghi periodi persino negativo. In quel mondo guardare allo spread aveva perfettamente senso, per capire che direzione stesse prendendo l’Italia. Ora molto meno. Con il rialzo dei tassi operato dalla Bce i rendimenti sono saliti, e di molto, per tutti. E siccome lo stato italiano sulle sue emissioni di debito non paga solo lo spread, bisogna guardare al tasso d’interesse del Btp a 10 anni che ormai è prossimo al 5%.

 

È quello l’indicatore che serve a capire a quale prezzo l’Italia si indebita. Le tabelle della Nadef, che a distanza di tre giorni dalla sua approvazione in Consiglio dei ministri non è ancora stata pubblicata, in questo senso parlano chiaro. Nel prossimo triennio la spesa per interessi dell’Italia passerà dal 3,8% del pil del 2023 al 4,6% del 2026. Circa 9 miliardi in più all’anno, ogni anno: 27 miliardi in tre anni. Si passa dai 78 miliardi del 2023 agli 89 miliardi del 2025, per poi salire a 95 miliardi nel 2025 fino ad arrivare a 105 miliardi nel 2026: il 4,6% del pil. Si tratta del livello più alto d’Europa sia in rapporto al pil, ma anche in valore assoluto. Per fare un confronto, per il servizio del debito la Francia spende l’1,8% del pil (circa 50 miliardi). La Germania arriverà a toccare l’1% (circa 40 miliardi). Per la Spagna la spesa per interessi è attorno al 2,5% del pil (poco più di 30 miliardi). Persino la Grecia, il cui debito è in gran parte detenuto dalle istituzioni internazionali, spende in interessi passivi meno del 3% del pil.

 

L’Italia, insomma, paga per finanziare il suo enorme debito una somma che è superiore alla spesa per l’istruzione e che presto sfonderà il tetto dei 100 miliardi l’anno. Perciò, in questo contesto, ha molto più senso guardare al rendimento dei titoli di stato – ora quasi al 5% – piuttosto che allo spread vicino ai 200 punti. Perché nel 2018, quando lo spread era all’allarmante quota 350, il rendimento era al 3-3,5%. Se ora lo spread salisse a 350 punti, vorrebbe dire che lo stato italiano si indebiterebbe al 6,5%: quasi il doppio di allora. Questo scenario di un debito pubblico fermo al 140%, con una spesa per interessi che aumenta costantemente, non sembra preoccupare neppure le opposizioni. Che anzi, invece di incalzare il governo per il lassismo sui conti, lo accusano addirittura di fare troppa “austerity”.

 

Tutta la classe politica, abituata a vivere nel decennio dei tassi a zero e della Bce che acquista titoli di stato, quando cioè indebitarsi era più che conveniente, non si rende conto che il mondo è radicalmente cambiato. Ogni forza politica, che sia al governo o che aspiri ad andarci, dovrebbe avere – un po’ come nel dibattito degli anni 90 – come obiettivo prioritario l’abbattimento del debito pubblico: stabilire un percorso di ritorno rapido all’avanzo primario, per mettere in sicurezza i conti ed evitare che il paese venga zavorrato dal debito e dissanguato dalla spesa per interessi. Anche perché, nello scenario peggiore, c’è il rischio di dover fare l’aggiustamento fiscale in una situazione di crisi. E sarebbe molto più doloroso.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali