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L'intervista

Ecco perché chi ha investito nei Brics ha guadagnato ben poco

Mariarosaria Marchesano

Il capo degli investimenti della banca svizzera Ubs in Italia, Matteo Ramenghi, ha individuato i due motivi dietro al mancato reddito degli investimenti sulle economie emergenti: la governance delle società quotate in questi paesi e la supremazia del dollaro

Che i Brics siano si siano rivelati una delusione per gli investitori lo ha ammesso da tempo anche Jim O’Neil, l’ex capo economista di Goldman Sachs, che nel 2001 coniò l’acronimo passato alla storia per dire che lo sviluppo dell’economia mondiale sarebbe passato per Cina, Russia, India e Brasile (più avanti si aggiunse il Sud Africa). Nessuno, però, finora ha spiegato come sia possibile che chi ha investito in economie emergenti, effettivamente cresciute negli ultimi decenni molto di più rispetto all’occidente, abbia guadagnato di gran lunga meno o addirittura accumulato perdite rispetto a chi ha puntato su Europa e Stati Uniti. Si sta parlando di investimenti finanziari i cui risultati si vedono dagli indici dei mercati azionari e obbligazionari, molto battuti anche da fondi pensione e da gestori di fondi d’investimento destinati ai risparmiatori che a lungo hanno creduto nell’Eldorado dei paesi emergenti. Un’eterna promessa, mancata alla prova dei fatti. 

Matteo Ramenghi, capo degli investimenti della banca svizzera Ubs in Italia, ha individuato due motivi: la governance delle società quotate in questi paesi e la supremazia del dollaro. La sua analisi parte da un dato: dalla crisi del 2008 in poi l’indice Msci Emerging Markets (espresso in dollari) è cresciuto meno del 120 per cento rispetto all’indice globale Msci Acw (in gergo si dice che ha “sottoperformato”). In particolare, si vede che è andata meglio a chi ha investito su Cina e India, che comunque sono andati peggio dell’indice globale, rispettivamente, di oltre il 60 per cento e del 30 per cento. Com’è possibile? “Le economie emergenti presentano un forte potenziale”, dice Ramenghi al Foglio, “tante registrano una popolazione giovane e in forte aumento, altre sono ricche di materie prime, alcune hanno intrapreso percorsi di riforme e sviluppo”. Infatti, secondo World Economics, le economie emergenti – di cu i Brics rappresentano quelli con le maggiori potenzialità ma non la totalità – hanno prodotto oltre l’80 per cento della crescita mondiale degli ultimi 10 anni: la parte del leone l’ha fatta l’Asia con oltre il 60 per cento di cui metà ascrivibile alla Cina e un quarto all’India. E allora perché si sono rivelate così deludenti? “Analizzando i numeri si capisce facilmente la ragione: nell’ultimo decennio la crescita media degli utili delle società quotate nei mercati emergenti è stata negativa dello 0,4 per cento, dato che si confronta con un più 7 per cento per le società statunitensi. In altri termini, l’espansione economica non si è tradotta in un incremento dei profitti delle società che anzi sono rimasti al palo”, dice Ramenghi.

In un’economia di mercato, se c’è sviluppo aumenta anche la redditività degli operatori economici, come mai nei paesi emergenti questo non è avvenuto? “Sicuramente molti fattori esterni hanno inciso, come la situazione geopolitica e le fasi alterne delle materie prime, ma due fattori sono stati determinanti: la svalutazione delle valute locali rispetto al dollaro e i copiosi aumenti di capitale, avvenuti tramite l’emissione di nuove azioni, che nella maggior parte dei casi hanno comportato una diluizione per gli azionisti senza apportare loro dei benefici”. Possono sembrare aspetti tecnici e per addetti ai lavori, ma rappresentano il riflesso di un divario sul piano culturale e finanziario. Solo per fare un esempio, nei paesi emergenti le imprese quotate hanno incrementato il numero di azioni del 6 per cento negli ultimi 10 anni (in Cina addirittura del 10 per cento, facendo diluire gli utili di pari passo) mentre tale aumento è stato solo dello 0,6 per cento in Europa e addirittura negativo negli Stati Uniti.

Insomma, la qualità della governance lascia ancora molto a desiderare. “L’altro elemento da considerare sono le valute locali, perché spesso hanno subito svalutazioni importanti rispetto al dollaro: mediamente di quasi il 2 per cento all’anno, storicamente molto di più in America Latina e Africa. Il dollaro, infatti, non è solo la valuta di riferimento, ma spesso è anche quella nella quale molti di questi paesi e di queste società si finanziano. Un dollaro più forte può, quindi, incidere significativamente sui bilanci e sui costi di finanziamento”. La morale, conclude l’esperto di Ubs, è che chi si vuole posizionare sui mercati emergenti deve accettare una rischiosità maggiore rispetto ai paesi avanzati o sperare in un indebolimento del dollaro, che, per il momento, però, non si vede all’orizzonte.

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