i conti al governo

Patto o non Patto, i vincoli di bilancio dell'Italia

Luciano Capone

Il governo vuole rivedere le regole europee per consentire politiche più espansive. Ma i limiti fiscali dell'Italia non sono nei parametri di Bruxelles, bensì nei giudizi dei mercati su un debito pubblico troppo alto che fatica a scendere

Le osservazioni di questi giorni sulle regole fiscali europee da parte dei ministri del governo Meloni sono tutte ragionevoli, ma sembrano far parte di una discussione teorica che prescinde dalle condizioni economiche e finanziarie del paese. “È impossibile portare i bilanci degli stati al rispetto dei parametri ordinari”, ha detto a Repubblica il ministro della Difesa Guido Crosetto parlando di quella “spada di Damocle” che è “il ritorno alle regole originarie del Patto di stabilità”. Non bisogna più abbassare la testa sui parametri tecnici, è il senso del ragionamento, ma alzare lo sguardo sul “futuro dell’Europa” pensando ai grandi cambiamenti come “la transizione ecologica, la carenza di materie prime e l’avanzamento dei Brics”. E pertanto, una soluzione possibile è quella di scorporare la spesa per investimenti per la transizione industriale e digitale dal conteggio del deficit.

Sulla stessa lunghezza d’onda di Crosetto, erano le dichiarazioni dei giorni scorsi di Giancarlo Giorgetti al Meeting di Rimini: “Vogliamo che gli investimenti siano trattati in modo privilegiato e meglio rispetto alle spese correnti”, ha detto il ministro dell’Economia a proposito della revisione del Patto di stabilità, parlando della necessità di politiche industriali e dell’intervento della mano visibile dello stato per aiutare le imprese a superare le sfide di quest’epoca. Il ragionamento di Crosetto e Giorgetti ha perfettamente senso in linea generale, ma è fallace nel caso dell’Italia se presume che il limite alla politica fiscale del nostro paese siano le regole decise a Bruxelles. Il vincolo di bilancio è invece deciso dai mercati e dipende soprattutto dal debito pubblico.

Pur ipotizzando un’improbabile proroga della sospensione del Patto di stabilità, l’Italia resterebbe comunque sotto il giudizio degli investitori. Non a caso, il governo Meloni si è responsabilmente impegnato nella legge di Bilancio a mantenere il debito su una traiettoria discendente. E per questa ragione lo spread è su livelli contenuti, sebbene più alti rispetto agli altri paesi europei. Il problema è che, secondo il quadro programmatico del Def, il debito pubblico italiano scenderà molto lievemente: dal 142% del 2023 al 141% del 2025. Circa mezzo punto l’anno. E questo, naturalmente, sempre che la crescita non si discosti dalle previsioni a causa del rallentamento dell’economia europea. 

Ma sarà difficile mantenere il +1% di pil nel 2023 e quasi impossibile il +1,5% nel 2024. Ciò vuol dire che, con una crescita leggermente più bassa, il debito non scenderà. E basterà un leggero scostamento dal sentiero di consolidamento dei conti pubblici, che prevede per l’anno prossimo un ritorno all’avanzo primario dello 0,3%, per vedere il debito pubblico tornare a salire. E questo è qualcosa che l’Italia non può permettersi, perché allarmerebbe i mercati e farebbe aumentare il prezzo del rischio richiesto dagli investitori e quindi lo spread.

Bisogna peraltro considerare che già adesso, a causa della politica monetaria della Bce per contrastare l’inflazione, il rendimento dei titoli di stato è in aumento e il servizio del debito dell’Italia è destinato ad aumentare dal 3,7% del pil del 2023 al 4,5% del 2026: si tratta della spesa per interessi più alta dell’Eurozona, di gran lunga superiore a quanto l’Italia spende per l’istruzione. A questo bisogna poi aggiungere che, a dispetto delle dichiarazioni, i partiti di maggioranza non intendono usare eventuali “extramargini” in deficit per gli investimenti ma per aumentare la spesa corrente: pensioni, decontribuzione, riforma fiscale... Una politica fiscale del genere, pur in assenza del Patto di stabilità, verrebbe punita dagli investitori che ogni giorno sui mercati comprano il debito pubblico italiano.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali