i numeri
I dati Ocse sui salari sono una sfida più per le imprese che per il governo
Retribuzioni reali in calo del 7,5 per cento: gli italiani hanno perso la tredicesima. Bonomi si scaglia contro la politica della Bce, ma non dice come si contrasta l'inflazione che colpisce i lavoratori. La soluzione non è semplice, ma passa da un accordo con i sindacati su rinnovi contrattuali e produttività
In Italia c’è una grande questione salariale, ma non è affatto di facile soluzione. L’Employment outlook 2023 dell’Ocse, presentato ieri, descrive una dinamica di crescita dei salari nominali inferiore all’inflazione: la perdita di potere d’acquisto è generale, ma in Italia è molto più intensa. In media, nel 1° trimestre 2023 i salari reali sono diminuiti del 3,8% rispetto all’anno precedente in 34 paesi Ocse, mentre in Italia sono scesi del 7,3%. Quasi il doppio. La caduta arriva al -7,5% se si considera come riferimento il periodo precedente alla pandemia. In pratica i lavoratori italiani hanno visto svanire, consumata dall’inflazione, una delle tredici mensilità percepite in un anno. Si tratta del calo dei salari più forte tra le principali economie dell’Ocse. Anche le proiezioni per il prossimo futuro non sono così rosee. Secondo l’Ocse, i salari nominali aumenteranno del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, ma si tratta di incrementi che cumulativamente saranno ancora inferiori all’inflazione che è stimata al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024. Alla fine del biennio, i salari reali avranno fatto un altro passettino indietro.
Ci sono anche dati positivi, che mostrano un mercato del lavoro robusto nella ripresa post Covid e anche in questa fase di rallentamento economico dopo lo choc energetico. Il tasso di disoccupazione Ocse è sceso al 4,8%, un livello che non si vedeva da decenni. E anche in Italia, che storicamente ha un dato più elevato, la disoccupazione è scesa al 7,6%, due punti percentuali in meno rispetto a prima del Covid. Specularmente, anche l’occupazione a maggio del 2023 è aumentata dell’1,7% rispetto all’anno precedente, segnalando un record storico del tasso di occupazione al 61% che però resta comunque circa 9 punti inferiore alla media Ocse. Anche per il prossimo futuro, ovvero il 2023 e il 2024, l’Ocse prevede un mercato del lavoro stabile con una crescita dell’occupazione attorno all’1% annuo nonostante la frenata dell’economia.
Il problema quindi non è la dinamica occupazionale, ma quella salariale. E la questione principale è il ritardo del rinnovo dei contratti, considerando che oltre il 50% dei lavoratori italiani è coperto da un contratto scaduto da oltre due anni. Solo nel 2022, dice l’Ocse, i salari fissati dai contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il 6%: “Si tratta di un calo particolarmente significativo se si considera che, a differenza di altri paesi, la contrattazione collettiva copre, in teoria, tutti i lavoratori dipendenti”. La ricetta suggerita dall’Ocse è in generale quella di puntare sulla contrattazione collettiva per contenere la perdita d’acquisto dei lavoratori, anche perché in generale le imprese sono riuscite a mantenere margini di profitto elevati scaricando sui consumatori per via della domanda robusta gli aumenti dei costi energetici. Vuol dire, insomma, che nei profitti delle imprese c’è spazio per assorbire gli aumenti salariali e senza innescare una spirale prezzi-salari che farebbe ripartire l’inflazione.
Questo in generale, ma in Italia non è esattamente così. Perché se nella maggior parte dei paesi Ocse i profitti unitari sono aumentati più del costo unitario del lavoro (in media +21% contro +16%), in Italia le cose sono andate diversamente: i due dati sono pressoché allineati, il costo del lavoro è salito del 10% e i profitti dell’11%. Questo vuol dire che non ci sono, come ad esempio sostiene il segretario della Cgil Maurizio Landini parlando di un’inflazione causata dai profitti e dall’avidità delle imprese, margini ampi e crescenti da sottrarre alle imprese o per imporre tasse sugli “extraprofitti”. Dall’altro lato però non si capisce neppure quale sia la proposta dei datori di lavoro, che non sembrano volersi fare carico della questione.
Negli ultimi tempi, dal presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, si sono sentiti molti attacchi alla politica monetaria della Bce: “Continuiamo a non comprendere questa continua rincorsa a combattere l’inflazione con lo strumento dei tassi. In un momento in cui dobbiamo sostenere gli investimenti, la rincorsa ad aumentare i tassi è deleteria soprattutto con una politica di annunci”, ha detto. In realtà, non si capisce – e Bonomi non lo ha spiegato – come la Bce o qualsiasi altra banca centrale possa combattere l’inflazione se non attraverso i tassi. Per Bonomi la Bce dovrebbe venire meno al suo mandato, il controllo dei prezzi, pur di evitare un raffreddamento dell’economia.
Il suo punto di vista è comprensibile, dato che le imprese sono meno colpite e il costo dell’inflazione lo stanno pagando soprattutto i lavoratori. Soluzioni facili non ce ne sono, anche perché neppure lo stato, dato l’elevato debito pubblico e il rialzo dei tassi, ha ampi margini di bilancio. Ma proprio per questa ragione tutti – governo, sindacati e imprese – dovrebbero sedersi intorno a un tavolo e trovare una soluzione, e prima ancora un metodo, che passi da reciproche rinunce e concessioni per far aumentare sia i salari sia la produttività: l’unico motore per avere una crescita sostenibile nel tempo.
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