Foto di Stephanie Lecocq, via Ansa 

l'analisi

Perché le “stupide” regole fiscali di Maastricht sono ancora utili

Nicola Rossi

Sostituire i parametri rigidi con un complesso negoziato, come vuole la Commissione, sarà molto problematico. Prima di tutto perché si è scelto di tenere insieme le norme semplici del Trattato con la discrezionalità dei piani dei singoli paesi

Dovendo rimettere mano al complesso di regole fiscali, la Commissione europea ha cominciato prendendo atto che sarebbe stato velleitario pensare di modificare la lettera del Trattato di Maastricht. E dunque le due regole “stupide” del Trattato – il limite del 3 per cento e l’obbiettivo del 60 per cento, rispettivamente, per i rapporti fra deficit e debito pubblico e pil – saranno ancora con noi nei prossimi anni. Nel secondo caso più che di un obbiettivo si è trattato di un pio desiderio mai concretamente perseguito. Nel primo caso, invece, per quanto stupida la regola ha, nella sostanza, funzionato. Fra il 1995 e il 2022, il deficit delle Amministrazioni pubbliche (in rapporto al prodotto) nell’Unione europea si è fermato al 2,9 per cento.

 

Certo, in questo numero ci sono l’1,9 per cento della Germania e il 6,6 della Grecia, lo 0,6 della Danimarca e il 3,9 della Francia, l’1,7 dell’Olanda e il 3,7 dell’Italia, ma nel giro di poco meno di un trentennio la dispersione dei deficit pubblici dei paesi dell’Unione si è ridotta in misura forse sorprendente. E tutto ciò non è avvenuto ponendo limiti irragionevoli alle politiche fiscali: in un venticinquennio certamente non privo di emergenze il rapporto fra debito pubblico e pil nell’Unione è passato dal 70 all’86 per cento circa. Certo, in alcuni casi, le regole del Trattato hanno apparentemente prodotto politiche fiscali pro-cicliche ma questo perché da parte di alcuni paesi – compresa l’Italia che ha riscritto l’articolo 81 della Costituzione a uso e consumo dei gonzi  – ci si è sempre rifiutati di capire che i giorni di sole servono per accumulare le risorse necessarie per quando poi piove. Insomma, se di stupidità si è trattato essa non ha riguardato le regole.

 

Fermo restando, dunque, il Trattato di Maastricht, si poteva – come già accaduto in passato – rendere inutilmente complicate le regole semplici ricorrendo a concetti privi di qualunque ambiguità in linea di principio ma, al contrario, a dir poco evanescenti dal punto di vista della loro applicazione pratica (ad esempio, il cosiddetto “disavanzo corretto per il ciclo”). Con il risultato di svuotare di contenuto le regole stesse ricorrendo, a giorni alterni, a deroghe, eccezioni, e così via. Rivelatasi questa strada accidentata e spesso impraticabile negli ultimi lustri, la Commissione europea ha optato per una soluzione che sovrappone alle regole semplici (e rigidamente omogenee) derivanti dal Trattato un insieme di procedure e prescrizioni intese a promuovere una ampia customizzazione di quelle regole e dedicate, in misura specifica, ai paesi con livelli più elevati di rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo.

 

In buona sostanza, per paesi caratterizzati da rapporti superiori al 60 per cento, si richiederebbe ai paesi stessi di definire un piano “plausibile” di riduzione del rapporto stesso con orizzonte pluriennale, associandolo a impegni precisi circa la dinamica della “spesa primaria netta”: non inclusiva, cioè, degli interessi e depurata dagli andamenti a carattere congiunturale e dalle entrate a carattere discrezionale. Il Piano – presumibilmente negoziato nei dettagli fra singoli paesi membri e Commissione - dovrebbe essere valutato, nel caso italiano, dall’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb) e, a seguire, dalla Commissione europea e approvato dal Consiglio europeo e, in presenza, di riforme ed investimenti potrebbe vedere estesa la propria durata da quattro a sette anni. Infine, per i paesi con rapporto debito pubblico/pil superiore al 90 per cento (l’Italia, ma anche la Francia, la Spagna, la Grecia e il Portogallo) le procedure intese a imporre il rispetto degli impegni – ivi inclusa la sospensione di finanziamenti europei – scatterebbero in automatico.

 

È fin troppo facile anticipare fin d’ora le difficoltà e i problemi cui si andrebbe incontro se il piano della Commissione trovasse piena attuazione. La “plausibilità” del debito presumibilmente coinvolgerebbe una analisi stocastica della sostenibilità del debito: uno strumento potente in linea di principio ma nella pratica capace di indicazioni tutt’altro che univoche. La definizione stessa di “spesa primaria netta” darebbe la stura a non pochi contenziosi. La natura “vincolante” di piani capaci di attraversare due (o più) legislature potrebbe porre problemi piuttosto delicati dal punto di vista democratico. Il carattere discrezionale e negoziale dell’intera procedura potrebbe in più di una occasione indurre comportamenti erratici da parte dei mercati.

 

Più in generale, stante la incapacità o la impossibilità di scegliere la strada maestra – una embrionale unione fiscale con una capacità fiscale centrale e un riferimento unico all’interno della Commissione – si è scelto ancora una volta di tenere insieme quel che insieme difficilmente sta. Le regole semplici e rigide del Trattato con l’impianto negoziale e ampiamente discrezionale dei piani. La relativa libertà di scelta degli stati membri con l’attitudine dirigistica della Commissione. La lettura rigorosa che delle regole danno alcuni paesi dell’Unione con quella “opzionale” che prevale in altri. E sta esattamente in questo aspetto la forza della proposta della Commissione: nella sua capacità di rinviare i nodi di fondo, senza peraltro chiedere a tutte le parti coinvolte alcun impegno circa il loro orientamento. 

 

Se questa lettura avesse un minimo di fondamento dovremmo prepararci non già a una lunga discussione circa la proposta della Commissione ma a una estenuante discussione durante la sua problematica attuazione. Ma la cosa non dovrà preoccuparci più di tanto. Per fortuna, le regole “stupide” saranno ancora lì, a proteggerci dai governi “intelligenti”.

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