Foto di Eugene Hoshiko, via LaPresse 

Xi di nuovo alla guida

La nuova leadership cinese non piace ai mercati

Mariarosaria Marchesano

Borse giù e investitori in partenza: la fiducia tra il paese asiatico e i mercati si è logorata dopo che le restrizioni normative verso i privati hanno rivelato una Cina meno intenzionata a essere attrattiva per i capitali stranieri e maggiormente rivolta verso l'interno 

Nonostante la crescita del terzo trimestre 2022 sia stata in Cina superiore alle attese (pil al 3,9 per cento rispetto a un consenso di mercato del 3,4 per cento), i mercati finanziari (asiatici, ma non solo) hanno accolto male il terzo inedito mandato di Xi Jinping alla guida del Partito comunista cinese. Hong Kong ha avuto un tracollo di oltre il 6 per cento, la Borsa di Shanghai ha perso il 2,3 per cento e lo yuan è sceso ai minimi dal 2008. A Wall Street l’indice che raggruppa le società cinesi ha perso il 20 per cento in apertura. Una prima spiegazione è nei numeri: i dati macro che Pechino ha pubblicato ieri sono contrastanti agli occhi degli investitori: il pil del terzo trimestre ha battuto le attese, ma a livello annuale indica una decisa frenata dell’economia, appesantita dal settore immobiliare, con i prezzi delle case sempre più in calo.

 

La seconda spiegazione è più politica, come sintetizza un’analisi di Unicredit: “La composizione del Comitato permanente del Politburo si è spostata in favore degli intransigenti nazionalisti vicini al presidente Xi, confermando le aspettative che la Cina sia in un futuro un paese maggiormente rivolto verso l’interno, a guida pubblica e assertivo”. L’allontanamento (per motivi di salute?) dell’ex presidente Hu Jintao e la sostituzione di quattro dei sette membri del Comitato permanente del Politburo avranno, secondo Algebris Investments, una conseguenza precisa: “Gli stretti alleati di Xi supervisioneranno tutte le massime istituzioni cinesi, dandogli un controllo ancora più forte nel suo terzo mandato rispetto ai dieci anni precedenti”. 

 

Che cosa implica una tale concentrazione di potere nelle mani di un gruppo così ristretto gli investitori internazionali ancora non lo sanno, ma cominciano a prendere le distanze: “Ci sono ben poche alternative all’Eurozona”, riflette Julian Marx, reasearch analist di Flossbach von Storch, “per esempio la Cina ha una capacità economica indiscussa e rappresenta un mercato di sbocco decisamente appetibile, ma lì ogni investimento è legato al volere di un regime autocratico”. Considerazioni e toni che fino a quando la Cina è cresciuta almeno del 5-6 per cento all’anno erano accuratamente evitati nei report anche perché le autorità di Pechino si sono sempre mostrate molto suscettibili. Certo, non mancano pareri ottimisti come quello, autorevole, di Edouard Carmignac, presidente e Cio dell’omonima casa di investimento francese, il quale nella sua ultima lettera al mercato ha spiegato perché le prospettive della Cina appaiono più incoraggianti di quelle dell’Europa: “Poco colpita dall’inflazione, la sua economia è supportata dal moltiplicarsi di piani di sostegno”, ha scritto. Ma nel complesso, il rapporto di fiducia tra il paese asiatico e i mercati finanziari ha cominciato a mostrare segni di logoramento dopo che restrizioni normative al settore privato hanno rivelato una Cina meno incline a mantenere condizioni di attrattività per i capitali esteri per privilegiare la “prosperità comune” interna. A preoccupare sono anche i rapporti con gli Stati Uniti sempre più tesi mentre è in corso l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. 

 

Pochi giorni fa il dipartimento del Commercio americano ha annunciato nuovi controlli sulle esportazioni di computer e microchip avanzati in Cina. “Le restrizioni sulla tecnologia da parte del governo statunitense fanno parte di una più ampia competizione strategica tra i due paesi”, spiega una ricerca di Pictet WM che conclude così: “Il parziale disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina non è di buon auspicio per l’economia mondiale e per la pace nel mondo”. E poi c’è tutta la questione della politica Zero Covid, confermata anche adesso che l’economia sta rallentando a vantaggio di paesi competitor.

 

Nick Payne, lead investment manager del team Jupiter Global Emerging Markets, sottolinea il nuovo ruolo che sta acquisendo l’India nel panorama manifatturiero a discapito della Cina, che, a suo avviso, è destinata a perdere il predominio come polo di riferimento per la manifattura globale. “I continui e draconiani lockdown di Pechino hanno fatto nascere la necessità di un’alternativa. L’India è il candidato chiave per ricoprire questo ruolo”. Per certi versi, osserva ancora Payne, il movimento di capitali e investimenti dalla Cina all’India è sembrato inevitabile. L’India, in quanto democrazia, ha accresciuto la sua capacità attrattiva, grazie anche alla propria base di conoscenze e ai vantaggi demografici”. Un esempio? Apple ha recentemente annunciato che produrrà l’iPhone 14 in India, con l’intenzione di realizzare il 25 per cento dei suoi dispositivi fuori dalla Cina entro il 2025.

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