Embargo Ue e price cap del G7. Le sanzioni contro Mosca su ciò che conta: il petrolio

Luciano Capone

Secondo la Iea, il blocco dell'Europa all'import di greggio farà crollare la produzione russa del 17% (-1,9 milioni di barili al giorno). E il tetto al prezzo potrà spingere in basso le quotazioni dell'Ural, ma molto dipenderà da Cina e India 

Nonostante il forte aumento del prezzo del gas, che comporta una sostituzione del metano con il petrolio nella produzione di energia, la domanda mondiale di greggio decelera. E lo si vede dal prezzo che dai 140 dollari al barile di marzo è sceso attorno ai 90 dollari nelle ultime settimane. Tra le cause i ripetuti lockdown in Cina e il rallentamento dell’economia globale, in particolare nei paesi Ocse, proprio per via dello choc energetico.

 

L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), nell’ultimo report sul mercato del petrolio, dice anche che i prossimi mesi saranno particolarmente difficili per la Russia. Anche se le esportazioni ad agosto sono aumentate di 220 mila barili al giorno, le entrate del Cremlino sono diminuite di 1,2 miliardi di dollari a causa della discesa dei prezzi. Ma l’impatto più forte ci sarà nei prossimi mesi. L’Iea prevede per la Russia una riduzione del 17% annuo della produzione petrolifera a febbraio, quando sarà entrato in vigore l’embargo dell’Unione europea sul petrolio (dicembre) e sui prodotti petroliferi (febbraio) russi. Per Mosca vuol dire 1,9 milioni di barili al giorno in meno: da 11,4 milioni di febbraio 2022, prima dell’invasione, a 9,5 milioni a febbraio 2023.

 

Finora l’impatto sulla produzione è stato limitato, con 450 mila barili al giorno in meno rispetto ai livelli pre guerra. Nonostante Europa, Giappone, Stati Uniti e Corea del sud abbiano ridotto le importazioni di 2 milioni di barili al giorno, la Russia è riuscita a reindirizzare i flussi verso India, Cina e Turchia, seppure a un prezzo scontato di 30 dollari, riuscendo così a limitare i danni anche grazie ai prezzi globali elevati. Ma i paesi dell’Unione europea rappresentano ancora il 37% dell’export russo di petrolio. Pertanto, quando entrerà in vigore l’embargo Mosca dovrà trovare una nuova destinazione ad altri 2,4 milioni di barili al giorno di greggio e prodotti petroliferi.

 

Oltre che sui volumi, le sanzioni occidentali puntano anche ad avere un ulteriore impatto sul prezzo. L’obiettivo del price cap proposto dal G7 è ridurre le entrate per il Cremlino ma senza far sparire dal mercato globale il petrolio russo, cosa che farebbe schizzare all’insù i prezzi con conseguenze negative per tutti (come sta accadendo con il gas in Europa). Il tetto al prezzo dei paesi del G7, che per conto loro attueranno un embargo, dovrebbe funzionare attraverso le compagnie di assicurazione e di servizi, prevalentemente occidentali, di cui si servono le petroliere per trasportare il petrolio russo nel mondo. Non è detto, naturalmente, che tutti i paesi terzi aderiranno al price cap. Anzi, grandi acquirenti come Cina e India non sembrano intenzionate a farlo e il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha fatto sapere che la Russia non venderà petrolio a chi aderirà al price cap. Ma Mosca non sembra avere molte leve.

 

Il tetto dovrebbe essere fissato a un livello superiore al costo marginale di produzione russo, in modo da rendere comunque conveniente l’estrazione. E dovrebbe spingere in basso i prezzi anche nei paesi che non vogliono adeguarsi al cap, ma che potranno usarlo per negoziare. È  quello che rileva S&P Global, dopo aver interpellato numerose società di raffinazione in Asia: il price cap può diventare quindi uno strumento di pressione al ribasso sui prezzi, un nuovo riferimento in mano agli acquirenti per strappare a Mosca sconti maggiore. La Russia potrebbe pertanto trovarsi stretta tra la prospettiva di tagliare la produzione e quella di guadagnare meno. Molto probabilmente dovrà fare un mix delle due cose.

 

Secondo alcune stime di mercato, il price cap potrebbe essere fissato tra 48 e 55 dollari al barile. Proprio in questi giorni il governo russo sta preparando la legge di bilancio e, a causa del deterioramento fiscale dovuto al calo del pil, il ministero dell’Economia intende alzare la regola che fissa il pareggio di bilancio da 45 a 60 dollari al barile.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali