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Aerei e gilet gialli: non esageriamo

Aumentano i prezzi e la rabbia. Ma strumentalizzare la crisi fa il gioco di Putin

Stefano Cingolani

L’inflazione provocata dall’aumento del costo dei carburanti, quindi dalla crisi energetica la quale a sua volta è figlia dell’embargo contro la Russia è il filo che lega gli scioperi di questi giorni, dai tassisti in Italia agli operai petroliferi in Norvegia fino alle difficoltà delle compagnie aeree

C’è un filo, lungo tremila chilometri, che lega lo sciopero dei tassisti in Italia a quello degli operai petroliferi in Norvegia? E ce n’è un altro che annoda il blocco dell’aeroporto di Francoforte, la messa a terra degli aerei Sas perché i dipendenti hanno incrociato le braccia, la crisi di EasyJet, la British Airways che taglia 1.500 voli? La risposta più comune è sì: è il filo dell’inflazione provocata dall’aumento del costo dei carburanti, quindi dalla crisi energetica la quale a sua volta è figlia dell’embargo contro la Russia. Una deduzione putinista, ma a suo modo razionale e stiamo già vedendo le prime ricadute sociali di crisi che nascono diverse, poi s’incrociano e s’attorcigliano per diventare un’unica grande crisi. I gilet gialli protestano in Libia e anche in Spagna. Si risvegliano quelli francesi, quanto agli italiani sono già all’erta. Ci attende una nuova ondata populista che nasce da un malessere vero, ma anche da un clima malmostoso facilmente montato e cavalcato. Al Cremlino si fregano le mani. La macchina della disinformatia è già all’opera. 

 

Non è facile contrastare la propaganda con i fatti.

 

Proviamo a farlo cominciando da una notizia che sembra paradossale. In pochi mesi la Norvegia ha scavalcato la Russia diventando il primo fornitore di metano in Europa, testa a testa con il gas liquefatto dagli Stati Uniti e dal Qatar. Gli operai chiedono un aumento dei salari per contrastare il carovita, eppure gli incassi andranno a rimpinguare il fondo sovrano, l’azienda di stato e il bilancio pubblico attraverso le tasse, migliorando le pensioni e il già ottimo stato sociale. Contraddizioni in seno al popolo. Le compagnie vedono ridursi la produzione e fanno salire ancora i prezzi, l’onda d’urto arriva fino in Italia dove i taxi bianchi si tingono di giallo, se la prendono come al solito con Uber, ma senza dubbio benzina, gasolio, metano e quant’altro costano oggi molto di più. I sindacati norvegesi l’avranno vinta, i tassisti italiani in qualche modo saranno accontentati. Paga Pantalone. Nel settore aeroportuale è già successo. La situazione è meno tragica a Fiumicino o a Malpensa grazie alla cassa integrazione in deroga che ha consentito di non licenziare durante la pandemia. Le compagnie aeree e in parte anche gli aeroporti hanno sbagliato previsioni: è prevalsa l’idea che il Covid-19 avrebbe bloccato i voli soprattutto a lunga distanza per almeno un triennio, invece l’onda dei viaggiatori in meno di tre mesi è tornata al livello precedente e anche più su.

 

C’entrano davvero le sanzioni? Le tensioni vanno avanti dal 2005 cioè dalla “rivoluzione arancione” quando per la prima volta Mosca girò i rubinetti. Le cose sono migliorate nel 2010 quando andò al potere il filo russo e sono tornate a peggiorare dopo il 2014 e l’annessione della Crimea. I prezzi hanno cominciato a salire dal maggio 2021 per l’aumento della domanda e la ripresa economica che ha preso tutti in contropiede. Un po’ come è accaduto nel trasporto aereo. L’embargo ha colpito il petrolio russo, però ce n’è tanto in giro per il mondo e i prezzi prima sono saliti poi scesi. Quanto al gas, dal 24 febbraio a oggi le importazioni europee dalla Russia sono aumentate del 50 per cento anche perché tutti hanno cercato di stoccare più riserve possibili. Adesso il Cremlino ha cominciato una vera stretta mascherata da problemi tecnici che ha reso isterico il mercato, anche se Gazprom, le cui azioni sono in picchiata, non potrà rinunciare ai suoi pingui profitti europei. L’allarme inflazione rischia di mandare fuori giro anche la politica monetaria con aumenti dei tassi d’interesse che rischiano di provocare recessione e negli Stati Uniti dove la stretta è più forte, si stanno già preoccupando. Dunque, certo che l’invasione in Ucraina c’entra; certo che le sanzioni colpiscono in Russia e anche in Europa o in America dove la benzina ancor oggi costa poco; certo che l’energia non è un lungo fiume tranquillo, ma non siamo come negli anni ’70, non ancora. Il prezzo del petrolio e del gas, sottratta la svalutazione monetaria e in percentuale al paniere della spesa, è oggi inferiore e per fare un chilometro occorre quattro volte meno carburante rispetto ad allora, lo stesso per mandare avanti una fabbrica.

 

Eppure, nemmeno l’ottimismo della volontà può impedire di rispondere alla domanda se ne valeva la pena, o meglio se eravamo pronti, visto che le sanzioni si stanno trasformando in un colpo di coda pericoloso negli stessi paesi occidentali, alimentando risentimento, rancore e rabbia. Chi crede nella transizione ecologica dirà: questa crisi è l’occasione che rende il cambiamento senza alternative e i costi vanno distribuiti in modo equo. Chi pensa che la priorità sia salvare i posti di lavoro spingerà per un aumento della spesa pubblica; in Germania sta già accadendo, l’Italia ha pochissimi margini, negli Stati Uniti i repubblicani lo bloccheranno almeno fino alle elezioni di midterm a novembre. Per impedire il rinculo disfattista occorre un consenso oggi difficile da trovare, una capacità di governo che quasi ovunque è scarsa e una stabilità politica più o meno precaria dappertutto. Se è così, si prepara l’autunno dello scontento. 

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