Il tetto al prezzo del gas è anche un tetto al potere di ricatto di Putin

Luciano Capone

Quello sul price cap è il ritorno con il Cremlino della partita sul pagamento in rubli. Putin ha poche alternative, ma minaccia di chiudere i rubinetti. Si dovrà scegliere tra la razionalità di Draghi e la paura di Scholz, in gioco c'è la credibilità dell'Europa

La discussione europea sul price cap sul gas imposta dalla proposta di Mario Draghi è la partita di ritorno con la Russia dopo quella sul pagamento in rubli. Il match di andata è finito con un pareggio, ma l’Ue ne è uscita divisa al termine di una prestazione imbarazzante. Alla fine il doppio conto in euro/rubli presso Gazprombank è stato un compromesso che ha salvato la faccia sia all’Europa sia a Putin, ma la Commissione per mesi non è stata in grado di dire se quel meccanismo violasse o meno le sanzioni e infine l’Unione si è spaccata, con paesi che hanno pagato accordandosi con Mosca e altri a cui è stato staccato il gas per non averlo fatto. Stavolta l’Europa si gioca tutta la sua credibilità.

 

La proposta di Draghi per limitare i pagamenti alla Russia e, quindi, il finanziamento alla guerra in Ucraina, è di applicare un tetto al prezzo del gas russo in arrivo dai gasdotti. Si tratta di una misura da manuale, come spiegato dagli economisti Federico Boffa e Giacomo Ponzetto: per reagire a un monopolista come Gazprom, la risposta più adeguata è formare un cartello o un contro-monopolio degli acquirenti in grado di contrastare il potere di mercato del venditore fissando un tetto al prezzo. Naturalmente, come opportunamente propone l’Italia, il price cap va imposto solo sul gas russo in primo luogo perché è quello che vogliamo sanzionare, in secondo luogo perché estenderlo ad altri fornitori sarebbe controproducente: proprio perché l’Europa intende ridurre la dipendenza dalla Russia, è necessario pagare di più gli altri per far arrivare il gas, in particolare quello liquido che è molto più mobile, da altri mercati come l’Asia. Estendere invece il price cap erga omnes porterebbe a un crollo complessivo dell’offerta di gas in Europa: ma ciò che ci interessa è sostituire l’offerta, non ridurla. Ciò non toglie che l’Europa possa trovare ulteriori accordi per mitigare il prezzo con fornitori amici come la Norvegia. La Russia dal canto suo, secondo la ratio della proposta italiana, subirebbe il tetto al prezzo del gas perché nella situazione attuale di prezzi elevati, di un’economia in difficoltà per via delle sanzioni e di spese elevate legate al costo della guerra, è meglio incassare meno che non incassare affatto. Anche perché, essendo legata all’Europa dai gasdotti, la Russia non potrebbe vendere quello stesso gas ad altri (ad esempio in Asia) perché mancano le infrastrutture.

 

Ma allora perché l’Europa non impone il tetto al prezzo? O meglio, perché la Germania non è d’accordo? Il timore di Olaf Scholz è che Putin non reagisca come la razionalità economica suggerirebbe, ma rilanciando con la chiusura dei rubinetti. In questo senso si tratta della partita di ritorno rispetto a quella sulla valuta di pagamento. In quell’occasione, Putin ha tagliato le forniture a paesi che si erano rifiutati di pagare in rubli come la Polonia, la Bulgaria e la Danimarca (e successivamente la Finlandia dopo la domanda di adesione alla Nato) per spaventare i grandi acquirenti come l’Italia e la Germania. E la lezione sembra aver funzionato, viste le paure di Berlino a fare passi in avanti. Sulla questione del pagamento in rubli, poteva anche aver senso non essere andati allo scontro frontale e aver cercato un compromesso. D’altronde in quella vicenda non erano in discussione né i quantitativi né il prezzo del gas russo, ma semplicemente la valuta. In termini economici non è cambiato niente e probabilmente, è ciò che hanno pensato alcuni paesi europei, non valeva la pena rischiare un taglio delle forniture di gas per una questione simbolica e dall’impatto economico nullo.  Il vero problema, quindi, non è di sostanza ma è psicologico: l’Europa è uscita intimorita dal match di andata, ha cioè paura di andare a vedere il bluff di Putin.

 

Ma il presidente russo, per quanto si faccia forte, mostra sul fronte dell’export di energia diverse debolezze: innanzitutto, da questa fonte di entrate dipende ben oltre il 50% del suo bilancio statale; in secondo luogo ha ripetutamente mostrato di voler garantire le forniture di gas (da ultimo proprio nella telefonata a Draghi); infine, già rispetto alle sanzioni sul petrolio la Russia ha mostrato che preferisce vendere a sconto di 35-40 dollari al barile (una sorta di price cap imposto da India e Cina, che approfittano della debolezza di Mosca) piuttosto che non vendere. E a differenza del petrolio, nel caso del gas la Russia non ha neppure l’alternativa di venderlo a paesi come Cina e India perché mancano i gasdotti.

 

Resta, ovviamente, un margine d’incertezza: Putin potrebbe comunque decidere di infliggersi un grande danno pur di punire i paesi europei, sperando in una loro crisi interna di consensi. Ma il suo potere di ritorsione è gonfiato proprio da chi lo teme, come la Germania. In questo senso, un tetto al prezzo del gas è un tetto ai ricatti di Putin. Ed è un test sulla credibilità dell’Europa, ora che la questione è all’ordine del giorno. Perché c’è solo una cosa politicamente più disastrosa del non imporre il price cap: parlarne apertamente e poi non metterlo per paura della reazione di Putin. Dopo la brutta partita d’andata sul pagamento in rubli, l’Europa perderebbe il ritorno con un autogol.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali