Troppo spesso la contrattazione collettiva viene depotenziata da norme di legge e complicata dal recepimento di direttive europee. Solo il maturo confronto tra le parti sociali più rappresentative può fornire risposte efficaci, declinando soluzioni condivise
Talvolta l’Italia scivola nel provincialismo riformista, in modo frequente quando si parla di sistemi elettorali ma anche in tema del mercato del lavoro si guarda spesso con entusiasmo alle riforme degli altri. L’ultimo esempio è il modello spagnolo che sta conquistando estimatori dopo il calo dei contratti a termine ad aprile. Giudicare una riforma dopo quattro mesi è azzardato, senza considerare che in Spagna la quota di lavoro a tempo determinato è al 26% rispetto al 17% dell’Italia. Due elementi della riforma di Yolanda Diaz sono invece colpevolmente trascurati e riguardano metodo e filosofia. Le nuove regole rappresentano la sintesi dell’intesa raggiunta da imprese e sindacati e l’architrave è la centralità della contrattazione collettiva. Un contesto diverso dall’Italia dove, spesso, si assiste a incursioni e invasioni di campo del legislatore anche su materie che attengono alle parti sociali. Dopo due anni di pandemia e gli effetti della guerra il sistema produttivo è chiamato ad affrontare una profonda riorganizzazione di cui la componente lavoro rappresenta un elemento fondamentale con il ritorno di spinte inflazionistiche che non si vedevano da 30 anni.
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