Stop alla delocalizzazione

Reshoring, cosa fare per rendere l'Italia più attrattiva. Parla Cipolletta

Mariarosaria Marchesano

Il presidente di Confindustria cultura Italia dice che "una modifica dei flussi mondiali di produzione porterà a una maggiore regionalizzazione rispetto al passato, ma non a una totale deglobalizzazione”. Come deve comportarsi il nostro paese?

Milano. Si fa presto a dire reshoring. Il ritorno in Italia delle catene produttive, tema posto dal segretario del Pd, Enrico Letta, nell’intervista sul Foglio di ieri, “sarebbe ipotizzabile solo a patto che il paese facesse un tale salto in avanti sul piano tecnologico da rendere competitivi i costi di fabbricazione dei prodotti”. E’ quello che pensa Innocenzo Cipolletta, che nella sua lunga carriera di economista e dirigente d’azienda ha maturato l’idea che certi processi a volte sono più auspicati che fattibili, pur ammettendo, in questo caso, che “la globalizzazione non sarà più quella che abbiamo conosciuto negli ultimi venti o trent’anni”. 


In effetti, prima la pandemia con i suoi colli di bottiglia e poi l’invasione dell’Ucraina con il ritorno esasperato del rischio geopolitico hanno spinto molti a domandarsi se l’Occidente non farebbe meglio a riportare “a casa” le fabbriche delocalizzate nei paesi a basso costo come quelli asiatici. “E’ probabile che si verifichi un avvicinamento delle catene produttive all’Europa, ma mi pare più possibile nel contesto del bacino del Mediterraneo che a livello italiano – osserva Cipolletta, che è presidente di Confindustria cultura Italia –. Paesi come Turchia, Marocco, Egitto, Tunisia rappresentano già oggi per alcune lavorazioni, per esempio in quelle del tessile-abbigliamento, un’alternativa alle regioni asiatiche che sono molto più lontane e pongono problemi di tipo logistico”. Più che di re-shoring, dunque, bisognerebbe parlare di “near-shoring”, cioè di approvvigionamenti nei paesi vicini, anche se il termine più in voga del momento è “friend-shoring”. Lo ha coniato il Segretario del Tesoro Usa, Janet Yellen, dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina e l’appoggio cinese, per dire che in futuro bisognerà fare affari con i paesi amici. Parole che ad alcuni hanno riportato alla mente la guerra commerciale contro la Cina scatenata da Donald Trump tra il 2018 e il 2019, quando per la prima volta si cominciò a ipotizzare il rientro delle catene produttive in nord America. “Io non ne farei tanto una questione di paesi amici, o di democrazia contro regimi autoritari, quanto di prossimità geografica e di relativa affidabilità dello stato con cui si hanno rapporti economici, anche perché, come abbiamo visto, le situazioni  dei governi possono cambiare rapidamente. Quello che più conta per l’Italia è diversificare le forniture di materie prime come il gas, ma anche come l’argilla la cui improvvisa carenza ha messo in ginocchio un intero distretto di aziende. Per quanto riguarda, invece, l’industria, mentre per alcuni settori come i microchip è possibile prevedere una produzione di tipo europeo in futuro, per altri sarebbe più complicato considerando il costo del lavoro più elevato, a meno che non si tratti di lavorazioni altamente meccanizzate”. 


Di fronte allo sconvolgimento della catena mondiale del valore, c’è chi sogna una nuova rivoluzione industriale, ma per Cipolletta ha più senso prevedere “una modifica dei flussi mondiali di produzione e commercio che porterà a una maggiore regionalizzazione rispetto al passato, ma non a una totale deglobalizzazione”. Anche perché, come ha messo in evidenza una recente ricerca di Sace (ex Cdp adesso Mef) il ripensamento del sistema produttivo non può che essere parziale considerato quanto costerebbe alle aziende chiudere le fabbriche in Cina e riaprirle in Italia. “E c’è anche un altro fattore da mettere in conto – riflette Cipolletta –, aprire o riaprire fabbriche vuol dire aver bisogno di manodopera e questo implicherebbe una politica di apertura all’immigrazione”.

Insomma, deglobalizzare ha un prezzo, che è economico (in molti casi le aziende non hanno ancora ammortizzato gli investimenti realizzati nella fase di internazionalizzazione avvenuta negli ultimi decenni), ma può essere anche di tipo politico e sociale. In tutto questo, l’Italia gode del vantaggio, come ha messo in evidenza anche l’Istat nell’ultimo bollettino sulla produzione industriale, di avere rispetto ad altri paesi una minore quota della catena produttiva basata in Asia e nell’est europeo, le aree in cui si stanno verificando i maggiori problemi nelle forniture. “La vera forza dell’Italia è avere un’industria della componentistica manifatturiera che le consente di giocare in Europa il ruolo di fornitore di grandi economie, come la Germania, che oggi più che mai farebbero fatica a rivolgersi altrove”.

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