La gran sveglia dell'Istat alle imprese che piangono ma non innovano

Dario Di Vico

Il report dell’istituto ci consegna, prendendo in esame il periodo 2018-2020, una fotografia per molti versi impietosa: la riduzione della volontà di investire è stimata in 5 punti percentuali

Finora non ha avuto grande fortuna mediatica ma il report pubblicato giovedì scorso dall’Istat è destinato quantomeno a far discutere. A cominciare dal titolo (inequivocabile): “Crolla la spesa delle imprese per l’innovazione”. Dei comportamenti messi in atto durante la prima fase della pandemia sappiamo ancora poco, con l’eccezione di due fattori: a) la capacità dei fornitori di restare agganciati alle catene internazionali del valore e in particolare al sistema renano; b) la velocissima e larga conversione allo smart working. Il report dell’Istat copre in parte il vuoto e ci consegna, prendendo in esame il periodo 2018-2020, una fotografia più larga e per molti versi impietosa. Corregge, infatti, il facile racconto di imprese medio-grandi più innovative e Pmi conservatrici. Purtroppo la pigrizia è trasversale alla dimensione. Sostiene l’Istat sulla base della rilevazione ultimata a dicembre 2021: “La crisi associata all’emergenza sanitaria ha ridotto pesantemente la propensione a innovare delle imprese (soprattutto medie e grandi) e causato un crollo delle spese per l’innovazione. Oltre un quinto delle medie e grandi imprese ha differito/annullato i piani di investimento”. Complessivamente la riduzione della volontà di investire è stimata in 5 punti percentuali. In parallelo però “c’è stata una spinta importante all’adozione di nuovi modelli organizzativi interni con l’introduzione di nuove tecnologie digitali nell’organizzazione del lavoro”. Il già citato smart working.


Il luogo dove si innova di più è l’industria, come da nostra tradizione, ma il numero delle imprese impegnate in investimenti innovativi cala del 7,2 per cento. Più contenuta è la contrazione nel settore dei servizi (-3,9 per cento) mentre a sorpresa le costruzioni mostrano un incremento delle attività innovative pari al 3,3 per cento. Ancor più allarmante è il successivo dato snocciolato dal report Istat e riferito questa volta al triennio 2016-18, quando nessuno poteva prevedere l’avvento del Covid. Ebbene, la propensione delle grandi imprese a innovare era calata del 6,2 per cento contro il 3,8 per cento delle Pmi. In soldoni la spesa sostenuta per le attività innovative è stata complessivamente di 33,6 miliardi nel 2020, oltre un quarto in meno del 2018 (45,5 miliardi). Anche l’intensità, ovvero la spesa per addetto, risulta amputata: da 9 mila euro a 6.900. Ma non è finita. Secondo l’Istat continua a prevalere in linea di massima la tendenza delle imprese italiane a innovare i processi aziendali piuttosto che a sviluppare nuovi prodotti per il mercato (43,6 per cento contro 26,8 per cento), ma rispetto al triennio 2016-18 diminuiscono sia la quota di imprese che realizzano innovazioni di prodotto (-4,3 per cento) sia di quelle che investono in nuovi processi (-3,8 per cento). Il made in Italy sta dilapidando il suo credito e non riesce a riprodurre il vantaggio competitivo della creatività? 
Se il complesso dell’industria italiana riduce l’innovazione esiste però un club di duri e puri, “i radicali”, che continua a sviluppare e vendere prodotti originali rispetto ai concorrenti. Il guaio è che questo club, pur crescendo, è circoscritto al 14,6 per cento delle imprese. Sul breve, a causa del Covid, l’impegno dei radicali non è stato premiato dal fatturato (i nuovi prodotti hanno venduto solo per il 3,8 per cento) ma si confida che non demordano. Il dato successivo è interessante per valutare l’open innovation e il contributo dell’industria allo sviluppo di un terziario europeo. Purtroppo però solo un terzo dei membri del Club innova collaborando con soggetti esterni (altre imprese, università, centri di ricerca e non profit) mentre il grosso sviluppa novità avvalendosi delle proprie risorse, senza guardare fuori.
 

Infine a essere interessate agli incentivi pubblici risultano più le grandi imprese (23,7 per cento) che le piccole (15,9 per cento) e a ottenere soldi pubblici sono prevalentemente la R&S, la farmaceutica e l’informatica. Ma la gestione dei fondi resta drammaticamente provinciale: il contributo della Ue è marginale. Il 9,5 per cento delle imprese con attività innovative ha ricevuto fondi dalle amministrazioni pubbliche centrali, un altro 9,5 per cento da amministrazioni regionali  e solo l’1,5 per cento ha ottenuto un sostegno da Bruxelles. Più frequente il ricorso alle agevolazioni fiscali, specie da parte delle grandi imprese mentre il ricorso al mercato dei capitali è una splendida eccezione: appena l’1,7 per cento ha usato finanziamenti azionari per innovare. Fin qui l’Istat le cui valutazioni riecheggiano giudizi espressi in più occasioni dalla Banca d’Italia. Sarà interessante vedere se e come le grandi imprese replicheranno al secco j’accuse dell’Istat.

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