Bonus, redditi, immobili. Ecco le tre fesserie dei populisti sul fisco

Oscar Giannino

Salvini canta vittoria: avrebbe ottenuto nessuna tassazione aggiuntiva sulla casa e nessuna armonizzazione nel prelievo su redditi da capitale. Conte urla che rivedere bonus e superbonus edilizi al 110 per cento è una “rappresaglia” contro il M5s. I fatti dicono che sono tre idiozie

La singolarità italiana si esprime in molteplici forme, una di quelle più straordinarie è il fisco. Non esistono paesi avanzati in cui il fisco sia più disomogeneo che in Italia per aliquote ed effetti sull’economia reale, per l’incoerente stratificazione nel tempo di scelte a favore di questa o quella constituency. Si spiegano così le acutissime divergenze di aliquota sui redditi da lavoro e pensioni rispetto ad autonomi, la forbice di aliquote sui redditi da capitale, la giungla di centinaia di agevolazioni esistenti su deduzione d’imponibile e detrazione d’imposta. Ognuna di esse nasce da scelte che questo o quel partito negli anni ha fatto in governi di coalizione, chiedendo bonus e superbonus minacciando altrimenti la fine di governi di coalizione. L’effetto complessivo sull’economia è opposto ai due princìpi basilari di un fisco moderno: equità nel trattamento tra chi percepisce stesso reddito a prescindere da come lo realizza, ed effetti sul pil potenziale.
 


Il copione si ripete oggi. Salvini canta vittoria: da Draghi avrebbe ottenuto nella delega fiscale nessuna tassazione aggiuntiva sulla casa e nessuna armonizzazione nel prelievo su redditi da capitale. Conte urla che rivedere bonus e superbonus edilizi al 110 per cento è una “rappresaglia” contro i Cinque Stelle. Con tutto il rispetto, i fatti dicono che sono tre fesserie. 

La prima: la famigerata contesa sul presunto “valore di mercato” degli immobili che sarebbe stato introdotto nella delega, base inevitabile di una patrimoniale futura. La questione non è mai esistita, ma per sei mesi i media l’hanno rilanciata. La tassazione è oggi e resterà domani sulla “rendita” immobiliare, sui redditi che vi si ricavano. Oggi c’è una rendita che l’Agenzia delle Entrate calcola secondo parametri fissi, cui si affianca una “rendita di mercato” per i pochi Comuni  che chiedono di aggiornarla secondo il dpr 138/1998, e infine c’è un valore patrimoniale che NON costituisce base imponibile perché l’imposizione è appunto sulla “rendita”, non sul valore. Nell’incontro di Salvini con Draghi è rimasta la prima fonte d’imponibile attuale, la seconda non è più chiamata “rendita di mercato” ma “rendita secondo il dpr 138/1998”, e infine il valore è riparametrato secondo le zone urbane come rilevato dall’Omi. In cosa consista la grande vittoria di Salvini, vedete voi. E’ stata solo un’operazione propagandistica.
 


La seconda: il no all’armonizzazione sui redditi da capitale. Se veramente sarà così, è una scelta conservatrice anti industriale. Oggi le aliquote variano dal 10 per cento di tassazione da redditi su immobili locati a contratto fisso pluriennale, al 12,5 per cento da cedole di titoli di stato, al 26 per cento su redditi da conti correnti, azioni, obbligazioni, fondi comuni e polizze vita. Conservare l’asimmetria significa preservare il vantaggio dei proprietari di immobili e dello stato, eternare lo svantaggio sia del risparmio sia di investimenti produttivi nelle imprese ed economia reale. Per un Paese a bassissima crescita e produttività stagnante, una scelta da somari.
 


La terza: il superbonus edilizio. Per tre volte da settembre Draghi ha provato a modificare la scelta ereditata da Conte, e per tre volte i partiti hanno detto no. Ad aprile si è già raggiunta la cifra di 30 miliardi di costo per lo stato: a oggi, la misura è di gran lunga la principale leva di politica industriale, a vantaggio di un solo settore e tagliando per sostenerla Industria 4.0, il Patent Box e aggravando la disciplina fiscale del riallineamento dei valori patrimoniali. Se tale strumento resta uguale, finirà per incorporare a carico publico tutta l’esplosione di prezzi dei lavori su edifici figlia dell’innalzamento verticale dei costi di commodities ed energia: nessuno – né imprese né proprietari – è incentivato a contenere i costi, tanto lo stato paga tutto. Pura follia. 

Si capisce così forse meglio la totale disattenzione dei partiti verso un energico taglio al cuneo contributivo, concentrandolo sotto i 35 mila euro di reddito. O a misure per le imprese come una Ires al 15 per cento di aliquota per aziende che reinvestissero tutti gli utili, e con una sovraliquota mobile fino al 24 per cento attuale quanto più distribuiscono cedole ai soci invece di ripatrimonializzarsi per crescere. Ma ovvio, sono proposte della famigerata Confindustria. Così il sistema fiscale resterà disomogeneo e iper-disallineato rispetto a quello dei paesi nostri concorrenti. Ma vuoi mettere quanto sono più importanti, le campagne elettorali?